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2008

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Partendo dall’analisi delle ricorrenze dell’espressione ex aere conlato e varianti nella documentazione epigrafica proveniente dalle comunità dell’Italia romana, l’A. analizza la diffusione dell’istituto della colletta pubblica, conlatio, nei primi tre secoli dell’impero. Dopo aver fornito una lista delle attestazioni dell’espressione in esame [pp. 320-321], l’A. mette in luce alcuni aspetti delle sottoscrizioni pubbliche così come appaiono nel materiale in analisi. In primo luogo, si pone in risalto il ruolo predominante del decurionato rispetto al popolo: è difatti il decurionato a indire nella maggior parte dei casi la sottoscrizione, mentre la funzione del popolo sembra essere quasi sempre quella di approvare quanto stabilito dal senato locale; si ipotizza di conseguenza che la menzione del popolo fosso poco più che una formalità o una formularità e in questo senso vengono individuati precisi paralleli tra la pratica locale, l’uso di Roma città e altri esempi di ambito provinciale [pp. 326-328]. In secondo luogo, si evidenzia come nella quasi totalità dei casi, e soprattutto a partire dall’età augusteo-tiberiana, lo scopo di tali sottoscrizioni fosse quello di onorare con statue o altri monumenti membri dell’élite locale; solo in età repubblicana sono sporadicamente attestati casi in cui la conlatio aveva funzione edilizia. Da qui l’ipotesi, sostenuta dall’A. [pp. 322-324], che le sottoscrizioni pubbliche coinvolgessero solo le classi più elevate, che amavano “autorappresentarsi” e “autocelebrarsi” tramite questa pratica. Altri problemi emergono nello studio della casistica in esame: ad esempio, si pone la questione se il denaro raccolto fosse destinato all’aerarium della comunità o se piuttosto fosse posto in una cassa a parte; sempre a riguardo della gestione di tali somme, si ipotizza la presenza di un magistrato speciale, di nome sempre diverso a seconda della città, che aveva lo scopo di amministrarle. In quanto forma di autorappresentazione, la colletta pubblica viene poi paragonata dall’A. alla pratica dell’evergetismo privato [pp. 324-325]: tramite una serie di esempi, l’A. dimostra come quest’ultimo, a differenza della pratica della sottoscrizione, aveva molto più spesso la funzione di dotare la città di strutture edilizie. L’analisi si arricchisce poi di alcuni esempi che mostrano come il ruolo del popolo nel sottoscrivere o indire collette pubbliche sia talvolta più attivo di quello dei decurioni (si cita un caso dove sono dei vicani a dedicare una statua grazie ad una conlatio, p. 329). Lo studio si conclude ponendo in risalto le differenze tra le collette pubbliche delle città greche e quelle delle città dell’Italia romana [pp. 330-331]: il fatto che in Grecia le sottoscrizioni pubbliche servissero quasi esclusivamente a costruire nuovi edifici o a ristrutturare quelli già esistenti e fossero soprattutto espressione dell’intero corpo civico (e non solo di una parte di quello) mostrerebbe una volta in più, secondo l’A., l’assoluta peculiarità delle conlationes delle città dell’Italia, volte solo ad (auto)onorare i membri delle stesse classi che indicevano tali sottoscrizioni. [F. Russo]

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Attraverso nuove acquisizioni epigrafiche, riletture e nuove datazioni di epigrafi edite [vd. le Tavv. alle pp. 597-603] si arricchiscono le informazioni relative ai membri delle classi dirigenti locali nei centri del Lazio e della Campania settentrionale dal III sec. a.C. all’età augustea. Sui magistrati locali impegnati nel controllo e nell’inaugurazione di lavori pubblici di ambito civile e religioso effettuati su decisione del senato e sotto il suo controllo; manifestazioni evergetiche, prevalentemente ludi. Accesso alle magistrature locali limitato a poche famiglie aristocratiche unite per generazioni da legami matrimoniali. Risorse dell’aristocrazia locale legate all’agricoltura ed ai suoi prodotti [pp. 605-607]. Sull’importante ruolo giocato dalla classe dirigente campana (esempi da Cuma, Teanum Sidicinum, Abellinum, etc.) nell’ascesa di Ottaviano Augusto e nel consolidamento del suo potere [pp. 607-611]. [L. Cappelletti]

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L’A. propone un’analisi delle ricorrenze dell’espressione res publica in ambito epigrafico. Riallacciandosi ad un precedente studio (E.Lyasse, Les notions de res publica et civitas dans la pensée romaine de la cité et de l’Empire, Latomus 66, 2007, 580-605), dove il concetto di res publica è esaminato a partire dalle fonti letterarie [riassunto alle pp. 183-189], l’A. si concentra adesso sul dato epigrafico, proponendo di distinguere le ricorrenze di res publica in iscrizioni di vario genere e provenienza in almeno tra classi distinte (sebbene talvolta sovrapponibili). Ad un primo gruppo appartengono le iscrizioni dove res publica indica essenzialmente la cassa pubblica di una comunità, rimandando a vari aspetti della vita finanziaria del centro, quale ad es. la ristrutturazione di edifici, intese come una sorta di evergetismo pubblico [p. 190-191]: a questo proposito si citano incarichi quali l’arcarius rei publicae, il quaestor rei publicae ed il servus rei publicae [p. 191]. L’A. pone in risalto come tale accezione concreta di res publica non ricorra nelle fonti letterarie, che dimostrano invece di avere del concetto di res publica un’accezione molto più astratta, che attinge alla riflessione politica piuttosto che alla vita quotidiana della città [p. 191]. Una seconda classe di iscrizioni è quella dove l’espressione res publica è citata in decreti di attribuzione di onori particolari ad esponenti della comunità stessa; la res publica comparirebbe non come soggetto attribuente l’onore, quanto piuttosto come la causa stessa dell’attribuzione dell’onore [p. 192-193]. La terza classe, infine, rappresenta una sorta di sovrapposizione tra le prime due, in quanto raccoglie epigrafi di carattere onorario ma relative alla costruzione di monumenti. In questo caso, l’onore è giustificato dalla res publica ed attribuito dai decurioni e dal popolo [p. 193-194]. Tale uso porta l’A. ad ipotizzare una sovrapposizione d’uso, valida solo in ambito epigrafico municipale (o comunque non afferente alla città di Roma), tra i concetti di populus e res publica. Laddove il primo sarebbe regolarmente impiegato a Roma, il secondo sarebbe tipico per i centri locali, pur conservando anche il significato di populus stesso [p. 193]. Il caso della Lex Irnitana, dove compare la formula rei publicae municipii Flavi Irnitani, richiama una documentazione epigrafica dove res publica è seguita dal genitivo di sostantivi quali colonia, municipium gens, castellum, etc. [p. 194]. Segue quindi l’analisi di documenti epigrafici dove res publica compare insieme all’ordo decurionum e al populus [p. 195-196]. Speciale attenzione è rivolta al caso di Corfinium, per cui ben tre iscrizioni testimoniano la formula res publica populusque (CIL IX, 3308; 3152; 3162). Trattandosi di epigrafi relative alla ristrutturazione/costruzione di edifici pubblici, secondo l’A. populus e res pubblica rappresenterebbero due entità ideologicamente oltreché finanziariamente distinte [p. 197]. Il corpus di iscrizioni esaminato viene infine riassunto [p. 197-200] da un punto di vista geografico (si pone in risalto la preponderanza di occorrenze epigrafiche di res publica in Italia, Spagna, particolarmente in Betica, e Africa Proconsolare, in contrasto con la scarsezza della documentazione proveniente dalle Gallie) e cronologico (preponderanza dell’età severiana). In base anche allo studio [p. 201] della formula, ricorrente in ambito spagnolo, omnibus honoribus in re publica suo functo (CIL II, 4197), si propone di vedere nell’uso epigrafico di res publica prova [p. 201-202] di un alto grado sia di romanizzazione (res publica era concetto politico romano) sia di autonomia (res publica reimpiegato in ambito locale secondo un uso originale). [F. Russo]

M.MAHÉ-SIMON, Les Samnites existent-ils encore à l’époque d’Auguste?, in: G.Urso (ed.), Patria diversis gentibus una? Unità politica e identità etniche nell’Italia antica, Atti del Convegno Internazionale Cividale del Friuli, 20-22 settembre 2007, Pisa 2008, 73-87.

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Secondo l’A. il vero scopo delle riforme agrarie e de civitate graccane sarebbe stato il potenziamento delle legioni romane. Il tema della “compensazione” terra/civitas ricorrente nella narrazione di Appiano sarebbe una costruzione puramente letteraria. Sull’esclusione degli Italici dal progetto di riforma agraria di Tiberio Gracco [pp. 471-473]. Sulla proposta de civitate di M. Fulvio Flacco, di cui l’A. ritiene destinatari Latini, Italici emigrati a Roma e cives sine suffragio [pp. 475-477]. Sulla proposta de civitate di C. Gracco, di cui l’A. reputa destinatari Latini e cives sine suffragio [p. 478]. Considerazioni in merito alla colonizzazione di diritto latino e di diritto romano [pp. 478-480]. Possibili ragioni dell’opposizione senatoria all’estensione della civitas Romana [pp. 481-482]. [L. Cappelletti]

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L’A. propone una nuova analisi del ruolo dei comitia nei centri locali della parte occidentale dell’Impero come prova dell’autonomia giuridica che il potere centrale concedeva ad essi [p. 301]. Si mette in risalto una serie di dati epigrafici (oltre ai noti programmata pompeiani, si cita il cosiddetto elogio di Brindisi, AE 1954, 216) e letterari (essenzialmente tratti da Cicerone) che testimoniano la vitalità dei comitia municipali in età repubblicana come anche l’esistenza di frequenti casi di irregolarità elettorali di varia natura [p. 301-302]. Presunte irregolarità formali, non riconducibili però a eventi di ambitus, sono anche rilevate in alcune iscrizioni, come ad es. un caso da Aesernia (CIL IX, 2666), che menziona la prorogatio di un quattuorviro iure dicundo in forza della lex Petronia [p. 303]. L’A. prende poi in analisi le disposizioni elettorali, o legate a procedure elettorali, nella Lex Tarentina e nella Tabula Heraclensis, ad ulteriore dimostrazione della vitalità dell’istituto elettorale nei centri locali per tutta l’età repubblicana [p. 303-304]. Tuttavia è la Lex Ursonensis che testimonia, sebbene per un periodo più tardo, l’importanza dei comitia locali così come la necessità di porre argine ad una serie di infrazioni delle regole elettorali a scopo corruttivo, che, visto il moltiplicarsi delle regole a questo proposito, non dovevano essere infrequenti [p. 304]. Altri casi di irregolarità elettorali, che potevano addirittura interrompere lo svolgimento delle elezioni, sono citati [p. 305] da Pisa (CIL IX, 1421), da Ostia (A. Degrassi, Inscriptiones Italiae, vol. XIII-1, Roma 1947, p. 180 e 183) e da Venusia (CIL IX, 422, dove per il 32 a.C. si citano due prefetti al posto dei regolari duoviri). L’A. pone poi in risalto la vitalità dei comizi locali, testimoniati da un’importante evidenza epigrafica (oltre alla nota Lex Malacitana, cf. i casi di Aquileia, CIL V, 995; Catania, CIL X, 7023; Ostia, CIL XIV, 375) in età alto-imperiale, in contrasto con la contemporanea situazione di Roma, dove il sistema elettorale aveva perso la sua funzione originaria [p. 306]. Grazie ad un’accurata analisi delle disposizioni elettorali contenute nella Lex Malacitana e nella Lex Ursonensis [p. 306-310], l’A. sottolinea l’interesse del potere centrale per il regolare funzionamento dell’attività elettorale a livello locale [p. 306], in contrasto con la decadenza dell’istituto elettorale a Roma nei medesimi anni [p. 310-311]. Si affronta infine il problema cronologico, che consiste essenzialmente nel definire fino a quando i comitia locali funzionarono più o meno regolarmente. Sulla base di un’epigrafe da Bovillae del 157 d.C. (CIL XIV, 2410), di una serie di riferimenti normativi e del fatto che le lex Iulia de ambitu era ancora applicata, a livello municipale, in età severiana, l’A. prende quest’ultima come termine cronologico certo per il funzionamento del sistema elettorale locale [p. 313-314], possibilmente estendibile fino all’età costantiniana [p. 315]. [F. Russo]

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Indagine onomastica e prosopografica e sullo status sociale, patrimoniale e giuridico dei diciannove magistrati censoria potestate complessivamente noti per il Bruzio – a Copia/Thurii, Crotone, Petelia, Reggio, Vibo Valentia – attraverso quindici testi epigrafici, prevalentemente dediche onorarie e in lingua latina, ricompresi nel periodo I sec.a.C. – II sec.d.C. La notevole capacità economica di alcuni di essi, manifesta tramite cospicui atti di evergetismo, derivava dallo sfruttamento di proprietà terriere e da attività imprenditoriali legate alla produzione e commercializzazione di laterizi [pp. 163-169]. In generale su oneri (e.g. summa honoraria) e competenze dei magistrati locali con potere censorio [pp. 170-172]. In Appendice l’A. fornisce un elenco di magistrati con potere censorio attestati in diversi centri delle regiones augustee, per i quali è dimostrabile l’appartenenza ad una stessa gens locale [pp. 180-181]. [L. Cappelletti]


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L’A. propone una nuova edizione e traduzione di due frammenti “sfuggiti per quasi un secolo all’attenzione di storici ed epigrafisti” [p. 147], scoperti da G.C.Couvert a Susa, pubblicati dallo scopritore nel 1897 (G.C.COUVERT, Nuovi scavi a Susa, Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino 7, 1897[1908], 406-417), e ripubblicati da M.Crawford nel 1996 (M.H.CRAWFORD, Roman Statutes, I, London 1996, 483-484, n. 31). L’A. concorda con Crawford sul fatto che le due iscrizioni in esame provengano da una lex municipalis, e tuttavia se ne distanzia sia per quanto riguarda alcune proposte di integrazione, sia per quanto riguarda la traduzione e relativa interpretazione del testo. Le due iscrizioni, chiamate A e B, vengono analizzate prima separatamente e poi confrontate; come premessa di metodo, l’A. specifica che i nomi A e B sono meramente indicativi, poiché non si può sapere quale due frammenti precedesse l’altro nel testo originario [p. 148]. Grazie ad una rilettura e successiva nuova edizione del testo B [pp. 148-151], l’A. ne sottolinea alcuni punti di contatto con alcuni passi della Lex Irnitana [p. 151]. Ad es. vengono individuati alcuni precisi richiami tra la lin. 17 del frammento B, così come risulta dalla rilettura proposta dall’A., e il cap. 87 della lex Irn.: entrambi i testi conterrebbero dunque norme analoghe relative a disposizioni de iudicibus reiciendis dandis. L’A. ricostruisce quindi una fitta rete di collegamenti più o meno espliciti tra la Lex Irn. e la lex di Segusium e ciò è funzionale ad una nuova lettura del frammento B, integrato, in caso di lacune particolarmente difficili, sulla base proprio della legge spagnola, e del quale si propone anche una traduzione italiana [pp. 152-159]. In particolare l’A. ritiene che il frammento B, dopo la descrizione della procedura prevista per la scelta del giudice nel caso di controversie inter duos, specificasse anche quella da seguire nel caso in cui le parti fossero plures quam duo. La situazione è assai più problematica per il frammento A, per cui, secondo l’A., manca qualsiasi parallelo, anche solo lessicale, sia nella Lex Irn. sia in altre leggi locali, come ad es. la Tabula Heracleensis [pp. 160-163]. Grazie ad una complessa serie di possibili integrazioni testuali l’A. ipotizza che il frammento A potesse contenere disposizioni relative agli scribae accusati di falsificazione di libri contabili del municipio [p. 164]. L’indagine conferma l’appartenenza dei due frammenti ad una legge municipale e tuttavia, secondo l’A., le divergenze contenutistiche e paleografiche rispetto alla lex di Irni, spingono ad escludere per il documento segusino una datazione di età flavia; peraltro lo status giuridico di Segusium, se municipium latino o romano, è poco chiaro [p. 165]. A questo riguardo, l’A. ritiene probabile, dopo un’attenta analisi di fonti epigrafiche di area alpina [pp. 166-167], che il centro fosse un municipio latino di età augustea, e che dunque la lex municipalis di cui restano i due frammenti in esame, risalga a questo periodo, rappresentando forse la legge istitutiva del municipio stesso [pp. 168-169]. [F. Russo]

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The A. is concerned with the idealistic background of servile insurrections and the political reactions to it between 137 and 88 BC. He first analyses the result of utopian ideas, like those expressed by Zenon of Kition, influencing politicians in Rome, namely Gaius Blossius and Tiberius Gracchus. The slaves themselves were encouraged by religious motifs in their battles against land owners and Roman rule [pp. 423-425]. The First Servile War waged in Sicily as well as in the mines of Laurion and Delos, where the A. traces the emergence of a new oligarchic pro-Roman upperclass, which profited by the extended slave trade [pp. 426-428]. In the revolt of Aristonicus of Pergamon, the pretender used the ideology of Helios to appeal to slaves and peasants and the presence of Blossius suggests not only opportunistic but also idealistic motivations [pp. 428-431]. The Second Servile War led to the establishment of an oligarchic regime in Athens, which clearly participated in the slave trade. One leader of the system was Medeios, who acted as archon between 91 and 88 BC in Athens and as a benefactor in Delos. This system was opposed by Athenion and an anti-Roman movement in 88 BC [pp. 431-433]. The A. comes to the conclusion that the utopies that were at the bottom of the servile insurrections circulated in all areas affected by the Roman slave trade system. The insurrections themselves led to important political reactions, from the establishment of different regimes in Athens to the incorporation of new Roman citizens after 90 BC [pp. 433-434]. [N. Rafetseder]

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Dedica su lastra calcarea (AnnEp 1966, 74; fig. 1 p. 1991) posta dalla colonia Romulensis al consul (nel 5 d.C.) e septemvir epulonum C. Vibius C.f. Postumus, appartenente all’importante famiglia dei Vibii, originari di Larinum. La colonia va identificata con la città di Hispalis in Baetica, conquistata e ridenominata da Cesare (colonia Iulia Romulensis); il personaggio è lo stesso menzionato – e apostrofato come praetor e proconsul – in un’altra dedica, di poco anteriore, da Larino posta da municipes et incolae (CIL IX 730; fig. 2, p. 1991). Proconsul Baeticae forse nel 3 d.C., dopo essere stato praetor; legatus di Tiberio in Illiria nel 6-12 d.C.; nel 9 d.C. ca. entra nel collegio sacerdotale dei septemviri epulonum. Nel periodo 12-16 d.C. ca. proconsole in Asia. La massima fase di ascesa e affermazione dei Vibii larinati nella politica e nella società dell’Urbe si colloca in età augustea-tiberiana, poi se ne perdono le tracce [pp. 1989-1995]. Riedizione della dedica (AnnEp 1995, 355; fig. 3 p. 2006) a C. Iulius M.f. Volt(inia) Proculus, incisa su lastra marmorea molto frammentaria rinvenuta nell’anfiteatro di Larino nel 1989/1990. Inizio della carriera di Proculus, rampollo di famiglia senatoria forse originaria della Gallia Narbonense, in età domizianea, culmine sotto Traiano – più volte legatus (Siria, Gallia), cos. suff. 109, quindecemvir – il quale però lo manda in esilio (post 113 d.C.); torna in auge sotto Adriano, spec. rivestendo l’importante carica di consularis, iudex e comes imperiale (cfr. Fronto, Epist. 2.7.19; CIL II2 7, 776 dalla Baetica). L’iterazione del consolato attestata nell’epigrafe larinate potrebbe riferirsi ad un secondo consolato suffetto oppure ad un consolato ordinario (forse nel 134 d.C.). La lastra iscritta, per il suo luogo di ritrovamento e le grandi dimensioni, era forse parte del piedistallo marmoreo di una statua onoraria su biga. L’honos bigae riservato a Proculus dai Larinati potrebbe interpretarsi come una ricompensa per dei ludi gladiatori, forse connessi a restauri dell’anfiteatro locale, entrambi finanziati dall’onorato [pp. 1995-2007]. [L. Cappelletti]

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Der A. analysiert in diesem Artikel die Bedeutung militärischer Präsenz bei der Beherrschung Siziliens durch Rom. Die alte Theorie einer militärischen Besatzung, welche die Hegemonie Roms durchsetzen sollte, kann im Fall von Sizilien nicht gehalten werden. Der A. kann darlegen, dass die Anwesenheit römischer Soldaten in Sizilien nur im äußersten Notfall belegt ist (etwa in den ersten beiden punischen Kriegen), und dass der von Rom für Sizilien ernannte Magistrat ohne militärische Begleitung auf die Insel kam [pp. 68-76]. Im nächsten Kapitel untersucht der A. die Belege für sizilische Land- und Seetruppen unter römischer Herrschaft. Dabei stellt sich heraus, dass Sizilier hauptsächlich bei der maritimen Verteidigung der Insel gegen Piraten oder bei Aufständen auf der Insel dienten, nicht jedoch als Auxiliartruppen außerhalb der Insel eingesetzt wurden. Sie stellten dabei das wichtigste Element der militärischen Sicherung römischer Herrschaft in Sizilien dar. Während das Oberkommando von römischen Magistraten ausgeübt wurde, wurden die einzelnen lokalen Kontingente von sizilischen Anführern befehligt. Eine Praxis, für die der A. auch Parallelen bei den griechischen Poleis des östlichen Mittelmeeres unter römischer Herrschaft finden kann [pp. 76-87]. Im letzten Abschnitt geht der A. der Institution des gymnasion nach, die in Sizilien weit verbreitet war und relativ gut dokumentiert ist. Dabei lässt sich eine direkte Verbindung zwischen einer in den gymnasia aktiven Oberschicht und der Ausbildung eines Bürgerheeres feststellen, was von Hieron II. in seinem Herrschaftsgebiet nach hellenistischem Vorbild stark gefördert wurde. Rom bediente sich bei der Etablierung seiner Provinz stark bei den vorhandenen Strukturen und förderte das oligarchische Prinzip der gymnasion-Ausbildung und die damit zusammenhängende Ausbildung von wehrfähigen Männern, die zur Sicherung der Insel eingesetzt werden konnten. Daher lässt sich in den ersten beiden Jahrhunderten römischer Herrschaft ein gestärktes kulturelles und militärisches Selbstbewusstsein der einzelnen sizilischen Gemeinden in den epigraphischen und numismatischen Quellen feststellen – ein Selbstbewusstsein, das von Rom aus pragmatischen Gründen der Herrschaftssicherung gefördert wurde und erst mit der ökonomischen und politischen Umstrukturierung der Insel unter Augustus ein Ende findet [pp. 87-99]. [N. Rafetseder]

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Sui significati dell’espressione fundus fieri [pp. 216-217 e 227]. La clausola nequis eorum a nobis civis recipiatur riportata da Cicerone, Balb. 32 e contenuta nei trattati conclusi da Roma con Cenomani, Insubri, Elvezi, etc. va intesa da un lato come una restrizione che lo stato romano impone a se stesso nel concedere la propria cittadinanza a stranieri e dall’altro come una concessione nei confronti dello stato straniero, su richiesta di quest’ultimo, al fine di preservare le sue strutture sociali e politiche [pp. 217-230]. L’A. ripercorre le varie interpretazioni della clausola proposte dai moderni (Mommsen, Hirschfeld, Horn, Brunt, Luraschi, etc.) [pp. 219-223]. A proposito della distinzione tra foedera aequa e iniqua [pp. 224-225]. Fonti letterarie, epigrafiche e papirologiche sulla posizione giuridica dei (neo)cittadini romani residenti all’estero negli ultimi due secoli della Repubblica [pp. 231-245]. L’A. svolge considerazioni in merito a: i beneficiari della civitas; differenti motivi e procedure di concessione della stessa; principio dell’inammissibilità della doppia cittadinanza; diritti e doveri spec. in ambito giudiziario (provocatio ad populum), fiscale (vacatio muneris publici; immunitas omnium rerum), militare (vacatio/immunitas militiae); naturalizzazioni collettive di truppe alleate italiche e provinciali nei secoli IV-II a.C. [pp. 245-247]. In particolare sulle naturalizzazioni individuali e sui loro risvolti negativi per le città d’origine (da un punto di vista sociale, umano, fiscale, giudiziario) e per Roma [pp. 247-250]. L’A. discute i casi noti di trattati contenenti la clausola di eccezione sulla concessione della cittadinanza romana (Camerinum; Cenomani; Insubri; Elvezi) [pp. 250-260], per poi soffermarsi su caratteristiche e contenuto dei trattati conclusi tra Roma e gli alleati celti e sulle funzioni della clausola d’eccezione [pp. 261-270]. [L. Cappelletti]

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Der A. beschäftigt sich in seinem Artikel mit der Rolle der römischen Armee in Bezug auf Integration und Romanisierung der Bundesgenossen zur Zeit der Republik. Wie der A. zu Bedenken gibt, war das römische Heer nicht gemischt organisiert, sondern Römer, Latiner und Bundesgenossen kämpften in separaten Kohorten, dienten im Normalfall mit Mitbürgern aus der Heimatgemeinde und hatten einen einheimischen Kommandeur [p. 244]. Dies war auch dadurch begründet, dass die sprachliche Vielfalt in der republikanischen Armee noch groß war und die Kommunikation zwischen den verschiedenen Volksgruppen nur durch eine kleine Schicht an peregrinen praefecti cohortis bzw. turmae gewährleistet wurde, welche Latein sprach und die Befehle des römischen Oberkommandanten bzw. der ihm untergeordneten praefecti socium bzw. alaribus an die nicht-lateinisch-sprechenden Kohorten weitergeben konnte. Diese Schicht bzw. die aus verschiedenen Bundesgenossen zusammengestellten Spezialeinheiten der extraordinarii, die aber wohl aufgrund ihrer Latein-Kenntnisse ausgewählt wurden und wohl meistens aus Latiner-Kolonien stammten, erfuhren in größerem Maße eine Romanisierung, während der Rest der Truppen der Bundesgenossen mit den Römern wohl wenig bis gar keinen Kontakt besaß [pp. 245-246]. Der A. weist außerdem darauf hin, dass diese Armee-Organisation, abgesehen von den Kontakten der Offiziere der Bundesgenossen zu den Römern, vor allem das Gemeinschaftsgefühl der Bundesgenossen untereinander gestärkt haben könnte, da sie gemeinsam kämpften und deren Offiziere ohne Aufstiegschancen in der römischen Armee auch keine Rivalität entwickelten [p. 249]. Was das Integrationsgefühl innerhalb der römischen Truppen angeht, sieht der A. eine starke Tendenz zur Akkulturation vor allem römischer Bürger vom ager Romanus, der sich im 2. Jh. v. Chr. bereits bis zu einer Entfernung von 100 Kilometern von Rom erstreckte. Dabei dürfte die dilectio, also die mehrere Tage andauernde Auswahl der Rekruten, eine große Rolle gespielt haben. Dieses wichtige Ritual wurde dezentral und Tribus-weise durchgeführt und vor den Augen der anderen Tribus-Angehörigen wurde man den verschiedenen Truppenteilen zugewiesen. Diese Musterung und Abstufung der Rekruten, die dem römischen Hierarchie-Denken entsprach, spornte weiter hinten gewählte Rekruten zu Ehrgeiz bzw. die als erstes Ausgewählten zur Rechtfertigung ihrer Position an [p. 254]. Entscheidend für die Integration dieser Römer vom Land war, wie der A. anmerkt, dass sie nicht nach Herkunft, sondern quer über alle Einheiten verteilt wurden und nur eines mit ihren Kameraden gemein hatten, nämlich das römische Bürgerrecht. Die republikanische Armee betrieb einen großen Aufwand, um die Zusammenballung von Soldaten gleicher Herkunft zu verhindern und das Gemeinschaftsgefühl römischer Bürger auf diese Weise zu stärken. Als die Rekrutierung von Freiwilligen gegenüber der Aushebung nach Bürgerlisten an Oberhand gewann, taten sich oft Soldaten gleicher Herkunft zusammen, eine natürliche Verhaltensweise, die sich auch in den kaiserzeitlichen Inschriften widerspiegelt, in denen die gemeinsame patria und die Bezeichnungen wie communiceps, municeps und convicanus unter den Kameraden eine wichtige Rolle spielen [p. 255]. Zuletzt spricht der A. die Tatsache an, dass durch den Umstieg von der Aufwandsentschädigung hin zum Sold sich die Tendenz zur Freiwilligenmeldung und gleichzeitiger Professionalisierung vor allem unter den gut bezahlten Centurionen bemerkbar machte, was die Wahrscheinlichkeit eines einfachen römischen Bürgers, rekrutiert zu werden, verringerte. Die Integrationswirkung der römischen Armee, die sich, wie der A. darlegte, vor allem auf die römische Landbevölkerung beschränkte, schien sich daher auch schon vor den Reformen des Marius durch die verstärkte Freiwilligenmeldung verringert haben [pp. 263-267]. [N. Rafetseder]

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L’A. si propone di chiarire alcuni aspetti del problema della ricezione delle norme romane in ambito municipiale e coloniale [p. 199] a partire dallo studio del cap. 103 della Lex Ursonensis, relativo al munus militiae [p. 200]. La scelta della Lex Urs. come oggetto di studio è motivata dal fatto che essa, a differenza dalla Lex Irnitana, che si rifà ad un complesso legislativo particolarmente eterogeneo, è, dal punto di vista normativo, omogenea, poiché si basa su un atto coloniale e normativo preciso e riconoscibile [p. 199]. Il cap. 103, relativo alla necessità che la colonia possa difendere se stessa e il suo territorio in casi di attacco esterno, attribuisce al duoviro e al prefetto iure dicundo la potestas di armatos educere, in caso di stato di mobilitazione dichiarato dai decurioni [p. 200]. Il richiamo a paralleli normativi romani è, secondo l’A., evidente, soprattutto per quanto riguarda la norma che fissa i poteri di comandi del duoviro e del prefetto, che sono i medesimi di cui gode il tribuno militare romano. Alcuni studiosi [p. 201] ritengono che questa norma sia fuori luogo per la Spagna, e ne mettono in risalto il probabile carattere tralatizio rispetto ad un’originale legge valida per le colonie in Italia o Galla Cisalpina [p. 201]. L’A. ritiene che il contesto storico della Betica in età cesariana o immediatamente post cesariana (secondo la datazione canonica della Lex Urs.) non sia affatto fuori luogo, in considerazione del fatto che la Spagna era stata da poco pacificata. Oltretutto, sembrerebbe strano che una norma di tale rilievo, che oltretutto non implicava l’intervento del potere centrale, potesse essere copiata nella legge costitutiva della colonia solo come risultato di un atto meccanico [p. 201]. Si mette poi in risalto che, a differenza di simili provvedimenti romani, non vi è nel cap. 103 cenno alla vacatio militiae. Quest’ultima è invece descritta in dettaglio nel cap. 62, relativo agli apparitores: nessuno di essi doveva prestare servizio militare contro la sua volontà durante l’anno della carica [p. 202]. Il riferimento normativo è, a detta dell’A., trasparente, basandosi la norma di Urso sulla Lex Cornelia de viginti quaestoribus d’età sillana [p. 203]. Tuttavia, ciò che colpisce nel cap. 62 è l’esclusione della vacatio in caso di tumultus gallicus et italicus. In virtù dell’apparente scarsa, se non nulla, attinenza storica dell’espressione tumultus gallicus et italicus alla Spagna romana, molti studiosi vi hanno voluto vedere prova del carattere tralatizio anche di questa norma, a ulteriore conferma di come l’intera lex non fosse che la riproposizione di una lex composta a Roma, di carattere generico, e attribuita al centro di Urso [p. 204]. Tramite l’analisi di una serie di passi letterari (Cic. Fil. 8.3; Verr. ap. Fest. 486 L, etc.), l’A. [p. 204-206] dimostra sia il carattere formulare dell’espressione tumultus gallicus et italicus sia la sua perdurante validità in età tardo repubblicana, ad indicare, per traslato, pericoli esterni e pericoli domestici. Prendendo ad ulteriore esempio il cap. 63, relativo alla vacatio degli auguri e dei pontefici della colonia [p. 207-208], l’A. mostra come, nei tre capitoli analizzati, ci sia da un lato l’aderenza a modelli normativi centrali – e come tali verosimilmente ampiamente diffusi – dall’altro una serie di modifiche attribuibili al centro locale in questione [pp. 209-210] e dunque significativi solo per esso. In questo senso andrebbero quindi considerate le corrispondenze e le differenze rilevate nei capitoli studiati tra versione locale e corrispondente riferimento normativo romano. A detta dell’A., quest’alternanza esclude una trasposizione meccanica, in ambito locale, di norme varate a Roma [p. 211]. [F. Russo]

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Partendo dal riesame dell’ipotesi di W.Liebenam (Städteverwaltung im römischen Kaiserreiche, Leipzig 1900), secondo cui il ruolo dei cittadini nelle comunità dell’impero romano si ridusse progressivamente soprattutto a partire dall’età imperiale, l’A. si concentra su alcuni casi delle regioni augustee VI e VII per dimostrare che, in effetti, la funzione dei cittadini fu tutt’altro che formale e meramente decorativa. L’approccio al problema si pone nella linea di una parte della critica moderna, che valorizza la funzione dei cittadini nel contesto delle elezioni locali ed in altri momenti della vita pubblica dei centri dell’impero romano [pp. 517-522; 524-526]. Nel caso specifico delle regiones VI e VII, l’A. rileva in primo luogo come l’occorrenza di termini quali populus, plebs, coloni, cives e municipes sia tutt’altro che irrilevante [pp. 519-520]. Sebbene si ammetta che in molti casi queste occorrenze corrispondano ad usi formulari [pp. 520 ss.], l’analisi di alcune iscrizioni indica invece un uso giuridicamente significativo e differenziato di questi termini (CIL XI, 6117; 6060, etc.). Sulla base della documentazione epigrafica l’A. [pp. 526-530] dimostra in particolare che il popolo mantenne un ruolo attivo nell’attribuzione di varie forme di onori a membri di spicco della comunità (CIL XI, 6971, da Luna). Questi onori sarebbero spesso da ricondurre ad episodi di evergetismo di vario genere (CIL XI, 4096; 4097). Il fatto poi che il termine populus, ad es., sia citato insieme ad altre componenti cittadine [pp. 533 ss.] dimostrerebbe non una formularità d’uso quanto la volontà di esprimere il consensus unanime dell’intero corpo civico (cfr. CIL XI, 1337). La stessa enumerazione delle componenti civiche non sarebbe casuale né formale, ma ricalcherebbe la struttura gerarchica della comunità. Il ruolo del popolo è poi rilevato nella documentazione epigrafica relativa ad altri momenti di vita pubblica, ad es. l’organizzazione di ludi [pp. 534-537]. D’altra parte, l’A. riconosce che sulla base del corpus epigrafico preso in analisi si può senz’altro ammettere l’importanza del popolo in alcuni settori dell’attività pubblica di un centro; nel contempo, non si può dire come tale importanza si esplicasse, soprattutto dal punto di vista giuridico-legislativo [pp. 538-539]. [F. Russo]

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Nei passi paralleli della costituzione giustinianea Tanta 8c = Δέδωκεν 8c, contenenti l’indicazione dei temi trattati in Dig. 50, il primo titolo, rispettivamente ad municipales = ὑπέρ τε πολιτῶν, corrisponde a quello della rubrica tripartita ad municipalem et de incolis in Dig., 50, 1. In riferimento alla stessa rubrica la riedizione della constitutio Tanta, inserita in Cod.Iust., 1, 17, 2, 8c riporta invece il titolo pro municipalibus. La Vulgata intitola la rubrica ad municipales et de incolis. Diversi tentativi, intrapresi dal XVI (Poliziano, Budé, Forunier, Cuiacio) al XX secolo, di mettere ordine tra le varianti attestate nella tradizione; prevalente nel complesso l’integrazione ad legem municipalem nelle edizioni di Dig., 50, 1 [p. 33-37]. Su queste basi nasce la tesi, formulata da E.Dirksen (1817) e accolta da F.K.von Savigny (1838), secondo cui il testo della Tabula Heracleensis sarebbe stato parte di una legge comiziale voluta da Cesare per disciplinare in modo generale e uniforme l’ordinamento di tutti i municipi; a questa lex municipalis si riferirebbe anche il contenuto della rubrica di Dig., 50, 1. Superamento quasi unanime di questa tesi attraverso studi recenti (spec. M.H.Crawford nel 1998), che sostengono invece l’esistenza di una serie di leggi successive disciplinanti in generale determinate materie relative all’assetto dei municipi [p. 38-39]. Sul liber singularis ad municipalem, monografia che, pur comparendo nell’Index Florentinus, con attribuzione a Paolo, in realtà non fu utilizzata per la compilazione di Dig., 50, 1 e dei Digesta in assoluto. I passi dei Fragmenta Vaticana 237 e 243, disciplinanti la tutela dativa, costituiscono le uniche evidenze su carattere e contenuto del liber, che l’A. ritiene un repertorio elementare di norme attinenti all’organizzazione municipale o ad alcuni aspetti di essa, riconoscendovi il prodotto di una rielaborazione postclassica, riflessa oltretutto nell’uso sostantivale, raro e tardo (metà IV sec. d.C.), del termine municipalis nel titolo dell’opera, uso estraneo a Paolo, che invece e al pari della restante letteratura giurisprudenziale conosce solo quello aggettivale [p. 41-48]. [L. Cappelletti]

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L’A. propone un’analisi delle élites in realtà locali di minore importanza, quali vici e pagi, a partire da uno studio dei magistri vici e dei magistri pagi [p. 257]. Dopo aver sottolineato la scarsa utilità delle fonti letterarie, che quasi mai menzionano queste due cariche (con l’eccezione dei testi gromatici), l’A. si concentra sul dato epigrafico, la cui consistenza e relativa omogeneità permettono di svolgere alcune considerazioni generali sul ruolo e l’aspetto sociale dei magistri vici e dei magistri pagi [p. 258]. L’A. premette alla sua analisi una precisazione metodologica: con il riferimento alle élites locali si intende coloro che ricoprono, nell’ambito vicanico e paganico, cariche pubbliche elettive o per nomina e che per questo motivo costituiscono un gruppo ristretto e definito all’interno della compagine sociale d’appartenenza, mentre ricadono fuori dall’analisi i vicani e i pagani (le cui attestazioni sono troppo numerose e varie, e perciò non comparabili con quelle dei magistri vici e magistri pagi), i magistrati romani (come i praefecti) e i possessores [p. 258]. La prima caratteristica rilevata dei magistri vici è che, in larghissima maggioranza (eccezione in CIL XIII, 2949), nessuno di questi ha poi ricoperto una qualche carica all’interno del cursus honorum municipale o locale [p. 260]. Non sono infatti quasi mai attestati magistri vici che siano anche stati patroni vici [p. 260], laddove questi ultimi si occupavano di solito del finanziamento delle strutture pubbliche di un vicus (cfr. il caso di M.Agrippa, che paga la costruzione di un edificio di un vicus campano, CIL X, 4831). Altra caratteristica dei magistri vici è che essi sono in larga parte schiavi affrancati, o, in misura minore, figli di schiavi affrancati [p. 261]. Nonostante alcuni punti di contatto con il sevirato, l’A. precisa come i magistri vici fossero comunque considerati socialmente inferiori rispetto ai seviri [p. 261]. Da un punto di vista onomastico, l’A. sottolinea come i magistri vici fossero molto raramente imparentati con le famiglie notabili del luogo [p. 262]. A differenza dei magistri vici, l’analisi onomastica mostra come i magistri pagi fossero regolarmente membri di famiglie di primo piano del territorio [p. 263]. Tra i vari esempi, sembra particolarmente significativo quello di T.Anienus, magister pagi a Furfo (CIL IX, 3521), il cui gentilizio ricorre anche nell’epigrafe dei dedicanti del tempio di Iuppiter Liber nella stessa zona (CIL IX, 3513). Un’analisi dettagliata delle attestazioni del gentilizio Vsulunes, dalla Gallia Narbonense, conferma l’importanza sociale, oltre che economica, delle gentes da cui i magistri pagi provenivano [p. 264-265]. Nelle conclusioni [p. 264], l’A. riassume le differenze salienti tra i magistri vici e i magistri pagi. Nonostante una somiglianza nella denominazione, i magistri vici e i magistri pagi ricoprivano cariche e funzioni del tutto diverse: mentre ai primi spettava essenzialmente il compito di censire le persone e gli immobili di un vicus, i secondi, oltre a tale compito (l’A. cita a tale proposito i praepositi pagi di un’iscrizione da Trinitapoli, AE 1984, 250), assolvevano a funzioni ben più complesse, come ad es. la ripartizione dei rifornimenti alle truppe stanziate sul territorio. Tale differenza spiega perché i magistri vici fossero di provenienza sociale più umile e non proseguissero la carriera ricoprendo altre e più importanti cariche; anche in una élite, dunque, vi erano differenti gradi di importanza sociale [p. 265-266]. [F. Russo]

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L’A. si esprime contro la moderna interpretazione “continuistica” tra realtà paganica preromana e assetto paganico romano [pp. 11-21]. Sulla Tavola di Veleia [pp. 17-22]. Sulla Tavola dei Ligures Baebiani [pp. 23-25]. Rassegna delle fonti antiche su pagi e vici d’età preromana, spec. in riferimento ai Sanniti. Prevale la menzione del vicus come struttura insediativa alternativa rispetto alle strutture cittadine [pp. 30-31]. Il pagus romano unifica e riorganizza le molteplici strutture italiche preromane nell’ambito di un nuovo assetto territoriale ed istituzionale delineatosi con il processo di municipalizzazione tra la fine della repubblica e l’età augustea. Le originarie diversità territoriali, organizzative, giuridiche delle singole popolazioni influenzano la nuova realtà romanizzata e quindi anche il configurarsi del pagus romano [pp. 34-39]. Fonti epigrafiche su pagi e vici in ambito italico, iberico, gallico, africano, spagnolo [pp. 37-40]. L’adozione generalizzata del pagus da parte romana (rispetto al vicus, ai conciliabula etc.) si spiega con la sua bassa potenzialità politica, richiamando esso essenzialmente una dimensione territoriale [pp. 42-43]. La fisionomia unitaria del pagus romano non si deve alla persistenza di una struttura uniforme preesistente, bensì è il risultato di un processo graduale svoltosi sotto il dominio romano [pp. 44-46]. [L. Cappelletti]

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In ihrem Artikel versuchen die A. durch eine Zusammenschau von neu entdeckten sowie neu interpretierten Münzen zu zeigen, dass Saguntum für einen bestimmten Zeitraum den Rang einer latinischen Kolonie besaß. Zunächst gehen die A. auf die Forschungsgeschichte ein, als die Forscher frühe Münzfunde falsch deuteten (AEM. ERCOL statt AEM AE COL). Durch einige Neufunde und genaue Erforschung des Stils der Motive konnten die A. mittlerweile 4 Phasen der Münzemission aus der Zeit der Kolonie feststellen, beginnend mit der bereits früh bekannten Münze L.Aem [—] ae. Aed(iles) col(oniae) bis zur letzten Phase [-] Baeb. Glob. M. Pop Ru [-]. [a]e[d(iles) col(oniae)]. Die nächste Münzemission fällt bereits unter die Phase, als Saguntum ein municipium war [pp. 286-287]. Den ungefähren Zeitraum der Koloniephase grenzen die A. durch zwei Belege ein: In seiner Rede für Balbus, geschrieben 56 v. Chr., spricht Cicero von Saguntum als einer „civitas foederata“ (Cic. Balb. 23; terminus post quem). In einer Inschrift, die Alföldy auf 3-4 v. Chr. schätzt, wird Saguntum erstmals als municipium bezeichnet (CIL II², 14, 305; terminus ante quem) [p. 288]. Da es aber nun keine weiteren epigraphischen oder historiographischen Hinweise gibt, die den Zeitraum des Status einer Kolonie für Saguntum eingrenzen, bedienen sich die A. einer Theorie von J.M. Abascal (La fecha de la promoción colonial de Carthago Nova y sus repercusiones edilicias, Mastia 1, 2002, 21-44), wonach Carthago Nova auf eine Initiative von Pompeius Magnus 54 v. Chr. zu einer Kolonie erhoben worden ist, und legen diese auf Saguntum um. Da wir von Pompeius-Anhängern (z.B. die Fabii bei Cic. Balb. 51) und von epigraphischen Belegen von Pompeii in Saguntum in augusteischer Zeit wissen, könnte es möglich sein, dass Pompeius Saguntum in seine Strategie, das Vertrauen und die Abhängigkeit wichtiger mediterraner Küstenstädte für sich zu gewinnen, einbezog und zu einer Kolonie erhob, bevor sie unter Augustus schließlich zu einem municipium gemacht wurde [pp. 289-290]. [N. Rafetseder]

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Sul procedimento esecutivo della manus iniectio pro iudicato contemplato nella lex epigrafica CIL I2, 401 = IX 782 = ILLRP 504 della colonia latina di Luceria (fondata nel 315/314 a.C.), per la quale l’A. accetta la cronologia di II sec. a.C. Si ripercorrono criticamente le differenti opinioni moderne sulla natura dell’istituto stesso, se esso in quanto pro iudicato e pertanto non necessitando di un processo e della pronuncia di una sentenza, rappresentasse un progresso o un regresso rispetto alla restante procedura processuale romana delle legis actiones [pp. 320-326]. Si evidenzia il fatto che nella lex di Luceria la manus iniectio pro iudicato trova applicazione – in base ad una previsione di legge romana o latina, forse più antica del testo che la tramanda – non nel campo privatistico di originaria appartenenza, ma pubblicistico, poiché l’interesse da tutelare è pubblico, l’attivazione del procedimento spetta a chiunque della cittadinanza, e in sostituzione del cittadino è il magistrato ad intervenire. Le ragioni della scomparsa del mezzo esecutivo diretto della manus iniectio azionato da un privato a tutela di interessi pubblici sono da imputare da un lato all’affermarsi ed al sostituirsi nel II sec.a.C. del processo formulare, dall’altro a ragioni sociali denunciate già per il III sec.a.C. da Plauto, Pers. 53-76 a proposito del redditizio “mestiere” dei quadruplatori [pp. 327-331]. [L. Cappelletti]

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Tra le iscrizioni inedite qui raccolte dall’A., una risale all’età gulio-claudia ed ha carattere votivo e ufficiale, l.4: [L(ocus)] d(atus) d(ecreto) [d(ecurionum)] [pp. 267-270]. Un’altra iscrizione su cippo viario è stata rinvenuta nel 1992 a Scafati e ora è al Museo Archeologico Valle del Sarno: dopo esame autoptico si propone una nuova lettura del testo [M(arcus) Antonius M(arci) f(ilius) C[—] / C(aius) Coranus C(aii) f(ilius) Tuscu(s) / IIIIvir(i) aed(iles) / viam pontis et / substructiones / de sua pecun(ia) refec(erunt)] e una nuova datazione (tra l’età protoaugustea e l’età giulio-claudia). I quattuorviri aediles ivi menzionati sarebbero magistrati della colonia romana di Nuceria e costituirebbero la coppia di edili accanto alla coppia di IIviri iure dicundo [pp. 288-292]. Infine a proposito del quinquevirato attestato a Nuceria in CIL X 1081 = ILS 6446 (età augustea), esso viene spiegato come un onore eccezionale, forse di carattere censorio, legato al rango equestre raggiunto dal personaggio [nt. 82]. [L. Cappelletti]

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L’A. propone una critica di W.D.Lebek, Die municipalen Curien oder Domitian als Republikaner: Lex Lati (Tab. Irn.) Paragraph 50 (?) und 51, ZPE 107, 1995, 135-194, a cui si accompagna una nuova lettura di alcuni passi della Lex Irnitana relativi alla suddivisione in curie della città. In particolare, è l’ipotesi secondo cui la Lex Irn. fosse una lex municipale promulgata da Domiziano in base a principi “democraticizzanti” ed egualitari ad essere sottoposta a dettagliata analisi [p. 233]. L’A. enuncia sin da principio che il problema di fondo, al di là delle particolarità rilevate nella Lex Irn. a proposito della suddivisione in curie del corpus cittadino dei votanti, è definire l’esistenza di una legge-quadro municipale, a cui Irni, come qualunque altro centro dell’Impero romano, si sarebbe rifatta, o se piuttosto la Lex Irn., come gli altri statuti spagnoli noti, non fosse che un provvedimento ad hoc, varato a Roma in relazione specifica al centro irnitano [p. 234-235]. Grazie ad un’analisi di una serie di norme relative alla suddivisione curiale e al successivo momento elettivo, ricorrenti in forma simile, ma con contenuti diversi, in altre note iscrizioni spagnole, quali la Lex Ursonensis o la Lex Malacitana, l’A. propende per una soluzione intermedia tra le due interpretazioni correnti: ferma restando l’esistenza di una sorta di legge-quadro, specifica nei contenuti, ma generica nella loro applicazione, si ipotizza che ciascun centro avesse poi la possibilità di modificarne le indicazioni normative in base alle esigenze locali [p. 235]. Per quanto riguarda il sistema elettorale descritto più dettagliatamente nella Lex Malac. e più cursoriamente nel resto dell’evidenza epigrafica studiata, l’A. ipotizza che il cosiddetto aspetto repubblicano della Lex Irn. vada appunto collegato al fatto che in ambito locale si copiava, liberamente, il sistema romano repubblicano, e non all’ipotesi, sostenuta dal Lebek, che Domiziano avesse voluto dare un’impronta particolarmente egualitaria alla città di Irni [p. 235]. Questa premessa introduce una dettagliata critica della ricostruzione proposta dal Lebek. In particolare [p. 235-237], partendo dal paragone proposto dal Lebek con i dati raccolti da T.Kotula nel volume dedicato alle curie africane (Les curies municipales en l’Afrique Romaine, Wroclaw 1968), l’A. sottolinea un dato lasciato da Lebek in secondo piano, e cioè la corrispondenza del numero delle curie (11) nelle epigrafi africane e nella Lex Irn. [p. 238], che minerebbe sostanzialmente l’ipotesi di Lebek, secondo cui il numero 11 sarebbe stato introdotto specificamente come risultato del numero dei votanti di Irni [p. 239-240]. Ulteriori analisi del dato epigrafico raccolto da Kotula confermano come 11 fosse il numero canonico delle curie in cui i maschi votanti di un centro venivano suddivisi [p. 241-243]. Il secondo punto della ricostruzione di Lebek su cui l’A. si sofferma è relativo al criterio della ripartizione dei votanti: laddove Lebek, a fronte del silenzio della Lex Irn. a questo proposito, ipotizza una suddivisione di natura strettamente familiare, in modo che ciascuna curia riunisse membri dello stesso gruppo familiare, ma di generazione diversa [p. 243], l’A., rilevando una serie di incoerenze all’interno di questa impostazione, preferisce associare la ripartizione in curie a criteri territoriali, ripresi, a suo avviso, dall’esempio di Roma stessa [p. 244]. In considerazione anche di queste ultime riflessioni, l’A., pur accettando che la Lex Irn. si ispirasse a regole repubblicane e che come tale dimostri la vitalità politica a livello locale, non crede che essa sia testimone in alcun modo di una qualche volontà democraticizzante o egualitaria. La similarità dei meccanismi, semmai, sarebbe da attribuire ad un formale processo di trasmissione normativa da Roma al centro locale [p. 245]. In chiusura [p. 246-247] si fa una critica della proposta di T.Kotula (relativa a CIL VIII, 11774), secondo cui ci sarebbe stata, entro la fine del III sec. d.C., una progressiva riduzione dei diritti politici tale da riservare l’accesso alle curiae cittadine solo ai membri dell’ordo decurionum, portando alla formazione di una vera e propria “classe curiale”. [F. Russo]

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La testimonianza sallustiana in Iug. 69.4, dove il praefectus T. Turpilius Silanus nel 109/108 a.C. viene condannato alla decapitazione per tradimento nam is civis ex Latio erat, è da sempre citata, ma senza un vero approfondimento, negli studi relativi al problema dell’introduzione dello ius provocationis in ambito militare e dell’esclusione dei socii latini e italici dal detto ius [pp. 136-148]. Dopo un’analisi dettagliata della documentazione letteraria, secondo l’A. il passo e il formulario di Sallustio indicherebbero che il tradimento di un soldato di nazionalità latina veniva punito con la decapitazione, mentre per lo stesso reato compiuto da un soldato civis Romanus era prevista la crocifissione (vd. ad es. Liv. 30.43.13) [pp. 149-151]. [L. Cappelletti]

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Sull’iscrizione su cippo viario rinvenuta presso Scafati nel 1992: M.Antonius M.f. [—] / C. Cornelius C. f. Fuscu(s) / IIII vir(i) aed(iles) / viam pontis et / substructiones / de sua pecun(ia) refec(erunt)]. Contro le proposte di attribuzione e datazione sinora avanzate per i due quattuorviri aediles ivi menzionati (magistrati della colonia romana di Pompei nel 62 d.C.: M.De’ Spagnolis Conticello, Il pons Sarni di Scafati e la via Nuceria-Pompeios, Roma 1994, 48-50), l’A. ritiene invece che si tratti di magistrati del municipium o della colonia romana di Nuceria. [L. Cappelletti]


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The article deals with a possible origin of senatorial families from Sicily in Imperial times. On the basis of collecting, re-editing and examining certain already known inscriptions from northeastern Sicily, W.Eck tries to show that Sicily might still have been home to some senatorial families and that it was not as neglected as previously assumed [p. 109]. In each case, basing on one to two votive or honorific inscriptions, onomastic and prosopographical evidence is combined with thoughts about the senatorial elite and their landholdings to suggest the connections of the concerning family/families to Sicily. In the first case, this is done based on the inscription first published by G.V.GENTILI, NSA 76, 1951, 163ff., probably concerning Roscius Aelianus Salvius, cos. 223; using further fragmentary inscriptions, a descent of the Roscii from the tribus Quirina and Sicily is suggested [pp. 109-113]. Second, two probably connected inscriptions found with statue fragments near Centuripe (s. G.LIBERTINI, Centuripe, Catania 1926, 45 frgm. f; G.MANGANARO, Epigraphica 51, 1989, 168) containing two 2nd -century consulars and a woman of the Sosii are re-examined. They serve to suggest a placement of the inscriptions on the family’s own grounds as well as a descent of the family from NE-Sicily as well [pp. 113-121]. Finally, the author regards a connection of the two families (Roscii and Sosii) as possible; more importantly, he concludes that strong clues exist for senatorial families not only to stem from but also to hold ties to Sicily far into the 3rd century AD [pp. 121-122]. In two appendices, two more inscriptions containing Roscii are re-edited [pp. 123-128]. [C. Volk]

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L’epigrafe CIL IX 980 = ILS 5604 (fine II-III sec.d.C.) dall’antica Compsa, od. Conza della Campania (Prov. Avellino), relativa ad un’opera evergetica compiuta dal quattuorviro C. Umbrius Eudrastus Fortunatus, contiene il riferimento alla legge municipale locale (lex civitatis), in conformità alla quale il magistrato (probabilmente con potere giusdicente) ha operato [p. 303-304]. Utile elenco degli statuti municipali a noi pervenuti o citati indirettamente nelle fonti epigrafiche [p. 305-308]. [L. Cappelletti]

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Secondo l’A. l’amministrazione iniziale della colonia (e non del presunto municipium) sarebbe stata affidata ad un quattuorvirato indistinto (vd. ad es. i programmata in lingua osca); la distinzione delle due coppie magistratuali di duoviri ed edili avviene solo successivamente [pp. 114-116]. Su Cic. pro Sulla 60-62; esistenza a Pompei di circoscrizioni elettorali (suffragia e non vici; inoltre ambitio e non ambulatio) su base territoriale e i Pompeiani, nonostante in numero maggiore rispetto ai coloni, sarebbero stati ripartiti in un numero inferiore di circoscrizioni, da qui il dissenso [pp. 117-120]. Esistenza di una divisione fisica fra i Pompeiani, residenti nel centro urbano/oppidum, e i coloni insediati nell’ager (ad es. pagus Augustus Felix suburbanus) [pp. 120-121]. [L. Cappelletti]

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Su Roma, Latini e civitas Romana nel II secolo a.C. [pp. 38-42]. Sulle rogationes de civitate degli anni 125-122 a.C., loro motivazioni e loro conseguenze (rivolta di Fregellae; ius adipiscendae civitatis Romanae per magistratum) [pp. 42-50]. I vantaggi di diritto privato e pubblico connessi all’acquisizione della civitas Romana. Novità e conseguenze delle iniziative mariane in tema di cittadinanza (singillatim virtutis causa e in acie). La lex Appuleia coloniaria del 100 a.C. [pp. 50-55]. La lex Licinia Mucia del 95 a.C. Espulsione dei retori latini nel 92 a.C. Fallimento della rogatio di M. Livio Druso nel 91 a.C. [pp. 56-58]. Sulle conseguenze della guerra sociale e la presunta crisi della repubblica romana. Ruolo, caratteristiche e frequentazione delle assemblee popolari prima e dopo il 91 a.C. [pp. 59-63]. Italici, censo e diritto di voto. In particolare sulla questione delle tribù assegnate agli Italici dopo il 90 a.C. [pp. 64-75]. Dal 90 a.C. aumento delle concessioni viritane della civitas Romana [pp. 75-80]. Ritorno all’esclusivismo in materia di cittadinanza. La lex Papia del 65 a.C. La causa Transpadanorum. La lex Minicia de liberis [pp. 80-83]. Scopi e cronologia del programma cesariano de civitate. La fondazione della colonia latina di Novum Comum. Le naturalizzazioni collettive in Gallia e in Spagna. Le naturalizzazioni viritane a Roma e in Asia [pp. 84-94]. Considerazioni sul programma augusteo de civitate [pp. 95-98]. [L. Cappelletti]

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Der A. beschäftigt sich mit der Munizipalisierung Siziliens unter Augustus, wobei er versucht, den nicht immer eindeutigen Bericht von Plinius dem Älteren damit in Einklang zu bringen. Für Diskussionen sorgen vor allem die oppida in dieser Aufzählung, deren munizipaler Status aus dem Bericht des Plinius oft nicht ablesbar ist. Wie der A. darstellt, war dies aber auch nicht die Intention der formula provinciae, die Plinius benutzte: Sie sollte die steuerpflichtigen Gemeinden zählen, weswegen etwa der Steuerstatus der Gemeinde (stipendaria, immunis, etc.) wichtiger war als der Bürgerrechtsstatus. Da Augustus auf das Getreide aus Sizilien für Rom angewiesen war, blieben die Gemeinden des fruchtbaren Innenlandes bis auf 3 Ausnahmen tributpflichtig, während die Städte an der Nordküste mit Veteranen besiedelt und autonom wurden. Erst als die Getreideversorgung durch Ägypten sichergestellt werden konnte, entließ Augustus, vermutlich beginnend mit seinem Besuch der Insel 23-22 v. Chr., weitere sizilische Gemeinden in die Autonomie – allerdings wird diese Phase der Munizipalisierung in Plinius Bericht nicht gänzlich abgebildet, da seine Quellen für Sizilien nur eine frühe Phase der Herrschaft des Augustus abbilden (vielleicht ist der Status von Halaesa etwa, das zwischen 2 v. und 14 n. Chr. ein municipium wurde, deswegen nicht erwähnt) [pp. 31-48]. Danach widmet sich der A. der Sonderstellung Siziliens unter den Provinzen. Zwischen Osten und Westen liegend, wurden weder das griechische Erbe, noch die Einflüsse der römischen Kultur und Lebensweise gänzlich angenommen. Als wichtiger Getreidelieferant, fernab jeder Grenze gelegen, wurde die Provinz weder von römischen Kaisern, Senatoren und Patronen reichlich gefördert, noch brachte es selbst, anders als die spanischen oder afrikanischen Provinzen, eine romanisierte Oberschicht hervor, die in Rom Karriere machte. [pp. 48-58]. [N. Rafetseder]

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The A. proposes a new analysis of the chapter 48 of the Lex Irnitana in the light of evolution of the concept of crimen repetundarum in Rome between late Republic and early Empire, with particular reference to the Lex Iulia de repetundis [p. 226]. The main aim of the detailed prescriptions contained in the chapter 48 of the Lex Irnitana is to prevent local magistrates (duovir, aedilis, quaestor), their relatives and their collaborators from any financial activity that could damage the community [p. 226-228]. Venturini emphasizes the generic nature of such prescriptions: in his opinion, this characteristic was due to the necessity to cover as many financial activities as possible [p. 227]. The A. stresses the similarities between this chapter of the Lex Irnitana and the Lex Sempronia, which specifically referred the crimen repetundarum to the magistrates and their sons [p. 228]. Such prescriptions were subsequently confirmed by the Lex Servilia Glauciae and by the Lex Cornelia [p. 229]. Significantly, the number of persons who were concerned by the crimen repetundarum was further extended during the imperial age [p. 228-230], as a passage from Marcianus shows (Dig. 48.11.1, cf. the senatus consultum Claudianum of 49 AD). Such an evolution would have been reflected by the provisions mentioned by the Lex Irnitana as well [p. 231]. According to the A., the Lex Irnitana was influenced by the evolution of the very idea of crimen repetundarum between the end of the Republic and the beginning of the Empire [p. 232-234]. In particular, the Lex Iulia de repetundis is seen as the most important juridical source for the provisions contained in the Lex Irnitana [p. 235-237]. Especially interesting is considered the possibility that such provisions might have been also influenced by the contemporary reflection on the connections between the concept of ambitus and the crimen repetundarum [p. 238], as a passage from Cicero also attests (Leg. 3.11). The A. stresses the similarities between the chapter 93 of the Lex Ursonensis – concerning the prohibition for magistrates to accept any donation – and the provisions concerning the crime of ambitus of the chapter 132 of the same Lex [p. 238-240]. With respect to legislative activity against various kinds of corruption, the Lex Ursonensis and the Lex Irnitana would thus show the dependency of municipia on the contemporary legislative activity in Rome [p. 241-242]. On the other hand, they would also suggest a certain degree of autonomy on the part of municipia in adapting Roman legislative provisions to their local exigencies. [F. Russo]

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In seinem Artikel analysiert der A. epigraphische Zeugnisse, um den Sprachgebrauch in Sizilien in den ersten Jahrhunderten nach Christus näher bestimmen zu können (ausgewählte Inschriften werden von ihm im Appendix kommentiert, pp. 579-594). Die Verwendung des Lateinischen bzw. Griechischen war stark kontextabhängig und variierte stark in den verschiedenen Regionen Siziliens. Während das Lateinische in den römischen Kolonien für offizielle Inschriften verwendet worden ist, führte die Dominanz des Griechischen als Kultursprache dazu, dass auch lateinisch-sprachige Eliten ihre Grabsteine in einem, oft nicht ganz korrekten, Griechisch setzten [pp. 543-554]. Mit der Christianisierung und der Ausrichtung auf die römische Amtskirche beginnt auch im Inselinneren eine Latinisierung einzusetzen, die jedoch nicht komplett und in allen Teilen der Insel in gleicher Weise stattfand [pp. 555-563]. Während bei der jüdischen Gemeinschaft in Sizilien und auch bei vielen pagi im Inselinneren das Griechische klar dominant bleibt und im epigraphischen Quellenmaterial zu Tage tritt, ist etwa im vicus der villa di Piazza Armerina auch im 4. Jh. n. Chr. noch eine Teilung zwischen offiziellen lateinischen Inschriften und griechischen Grabinschriften festzumachen. Diese Teilung wird erst unter ostgotischer Herrschaft zugunsten des Lateinischen aufgegeben, das sich langfristig als gesprochene Sprache etabliert – auch wenn unter der folgenden byzantinischen Herrschaft noch einmal versucht wurde, das Griechische als Amts- und Kirchensprache durchzusetzen [pp. 564-578]. [N. Rafetseder]

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A partire da un’analisi della Lex Irnitana e degli statuti di Malaca e Salpensa, l’A. si propone di chiarire alcuni aspetti giuridici particolarmente controversi relativi ai municipi e alle colonie dell’Africa del Nord [p. 381]. L’omogeneità normativa dei tre statuti municipali, permette all’A. di rilevare richiami a provvedimenti legislativi anche anteriori all’età flavia, segnatamente il periodo augusteo e la tarda repubblica, nonché paralleli con municipi di area non spagnola [p. 382]. Come esempio si cita la rubrica 79 della Lex Irn., il cui assunto doveva riferirsi ad una legge coloniale di portata generale e non specifica di Irni, dato che in essa ricorrono riferimenti presenti anche in un frammento epigrafico proveniente dal Norico (FIRA2, n. 26, p. 220). Dopo queste osservazioni generali di carattere introduttivo, l’A. passa ad analizzare in dettaglio alcune rubriche della Lex Irn., in particolare di quelle che contribuiscono a suo avviso a comprendere meglio alcuni aspetti della costituzione municipale [p. 382-383]. La rubrica 93 indica che alcune norme locali, preesistenti alla fondazione del municipio, potevano sussistere anche successivamente, ma solo a patto che esse non contraddicessero né i regolamenti contenuti nella Lex, né ovviamente il diritto romano [p. 383]. Le rubriche 30-31 vengono analizzate nella stessa ottica, cioè il problema della continuità tra città peregrina e fondazione municipale [p. 384], confermando la differenza tra le due forme istituzionali (essenzialmente dovuta al fatto che la colonia era creazione ex nihilo, a differenza del municipio). A proposito della continuità istituzionale, l’A. rileva come il consiglio peregrino si trasformi regolarmente nel decurionato municipale [p. 385]. La rubrica 31 permette anche di chiarire la natura dei decurionati locali, soprattutto per quanto riguarda la loro consistenza numerica ed il reclutamento dei nuovi decurioni [p. 386]. Il numero di decurioni stabilito dalla Lex Irn. ammonta a 63, in contrasto con il dato fornito dall’evidenza epigrafica nordafricana, che attesta consigli composti da multipli di dieci. Secondo l’A., il numero 63 sarebbe tipico per Irni e corrisponderebbe al numero di membri del precedente consiglio cittadino; ciò confermerebbe la continuità istituzionale nel passaggio da centro peregrino a municipio [p. 386]. Anche nei centri africani, d’altra parte, il numero di decurioni, sempre multiplo di dieci, sarebbe da collegare alle dimensioni effettive della città, e quindi alla sua espressione demografica [p. 387]. La rubrica 31 attesta anche come il decurionato potesse essere integrato, una sola volta, ogni anno, differentemente dall’ipotesi moderna secondo cui il decurionato poteva essere integrato solo ogni cinque anni (ipotesi proposta sulla base di una Lex Iulia municipalis di età cesariana). La rubrica 31 è invece lacunosa per quanto riguarda le modalità di reclutamento dei nuovi decurioni, poiché ci informa solo del fatto che i decurioni decidevano la data per l’elezione annuale dei nuovi membri del decurionato [p. 387-388]. Tuttavia, la rubrica 21, che concerne il problema dell’ottenimento della cittadinanza romana all’interno del municipio, ci fornisce qualche indicazione sul ruolo dei decurioni in carica nella scelta di quelli nuovi [p. 389]. Una nuova lettura della rubrica 21 permette all’A. di risolvere un’apparente aporia in essa contenuta e di chiarire che ad Irni i decurioni erano scelti tra coloro che erano già stati duoviri, edili o questori. Su queste basi, l’A. confuta l’ipotesi moderna secondo cui, in età imperiale, una supposta crisi demografica avrebbe portato nel decurionato anche membri che non avevano rivestito alcuna carica dotata di potestas [p. 390]. La stessa connessione tra decurionato e magistrature è sottolineata nella Tavola di Eraclea, che prescrive che coloro che non hanno i requisiti per accedere al decurionato non possono essere eletti magistrati [p. 390]. Per quanto riguarda il problema dei meccanismi elettorali, la Lex Irn. è di scarso aiuto, a differenza ad es. della Lex Malacitana [p. 391]. Tuttavia, essa permette di chiarire un aspetto controverso delle città africane, e cioè il numero di curie in esse presenti. L’A. mette in risalto la coincidenza tra il numero massimo di curie previsto dagli statuti municipali, 11, e quello attestato dall’evidenza epigrafica per le città africane, 10. Lungi dall’essere casuale, tale coincidenza testimonierebbe l’esistenza di un preciso regolamento, recepito sia in Spagna che in Africa [p. 391]. Nel caso africano, poi, la coincidenza con gli statuti spagnoli permetterebbe di escludere che il numero di curie fosse un retaggio punico precedente alla municipalizzazione [p. 392], essendo semmai conseguenza diretta di quest’ultima. Passando ai casi nordafricani, l’A. propone il caso di Leptis Magna come esempio di come tale regolamento si applicasse anche alle colonie: i nomi delle 8 curie ivi attestate, evocanti Traiano e la sua famiglia, suggeriscono l’avvenuta organizzazione delle curie proprio al momento della promozione coloniale. In tema di continuità, il caso di Lambaesis mostra come i nomi delle curie siano rimasti i medesimi anche al momento del passaggio da vicus a municipio [p. 392-393). Si affronta poi il dibattuto tema della composizione delle curie, discutendo in prima analisi la teoria di R.Duncan Jones, The Economy of the Roman Empire. Quantitative Studies, Cambridge 1982, p. 227-283, secondo cui esse avevano un forte carattere elitario e non accoglievano la totalità dei cittadini aventi diritto di voto [p. 394-395]. La Lex Irn. non ammette un’ipotesi del genere, ed anzi suggerisce che le curie raccogliessero tutti i maschi della città, dimodoché solo le donne e i bambini ne erano esclusi [p. 395]. Segue una discussione di alcune iscrizioni dove compaiono contemporaneamente termini quali curia e popolus, che secondo alcuni implicherebbero che non tutto il populus, inteso come corpo dei votanti, fosse incluso nelle curiae. L’A. analizza alcune iscrizioni dove ricorrrono plebs e populus, indicando essi, alternativamente, sia il corpo cittadino degli aventi diritti di voto, sia l’insieme della popolazione [p. 396-398]. Si porta ad esempio l’iscrizione AE 1975, 877, dove compare la formula curialibus universis civibus [p. 399], che testimonierebbe l’uso, seriore e “abusivo”, di civis nel senso di semplice abitante, senza riferimenti alla sfera giuridica (a differenza di curialibus). Si conclude ribadendo che le curie raccoglievano tutti gli aventi diritto al voto (maschi adulti) almeno in linea di principio, poiché non esisteva nessun veto costituzionale che impedisse agli aventi diritto di essere reclutati nel sistema curiale [p. 400]. In assenza di una restrizione giuridica, poteva comunque essercene una di tipo sociale, poiché è verosimile che i più poveri, pur avendone diritto, non partecipassero all’attività curiale. Tale limitazione sociale non ammette però una visione elitaria delle curie, come ipotizzata da alcuni studi che attribuiscono alle curie 1/4 o 1/5 della popolazione locale [p. 401]. [F. Russo]

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Nello statuto municipale di Taranto, in quello di Urso ed in quello di Malaga si dispone, con quasi assoluta identità di formulazione e di tecnica, sul divieto di distruggere e demolire edifici nel contesto urbano. L’uniformità di tali disposizioni, che si diversificano solo per quanto riguarda le deroghe al divieto, più che con una derivazione da un modello statutario generale e comune, va spiegata con la fondamentale identità dei problemi. Tali disposizioni, autorizzando l’intervento ed il controllo dei poteri pubblici sulla proprietà edilizia, limitano la disposizione teoricamente illimitata del dominus, ossia la sua libertà teoricamente illimitata di disposizione dei propri edifici. L’A. evidenzia i connotati privatistici degli strumenti processuali (iudicia recuperatoria) e delle sanzioni pecuniarie a contenuto estimatorio previste nei tre statuti [pp. 267-269]. La normativa statutaria locale, in Italia e nelle province, che a partire dalla prima metà del I sec. a.C. disciplina l’attività edilizia in municipi e colonie, precede di circa un secolo provvedimenti legislativi in materia analoga e validi per l’Urbs e per l’Italia emanati in età giulio-claudia, come i due senatoconsulti Osidiano e Volusiano trasmessi in CIL X 158, ora perduta (cfr. Dig. 18.1.52) [pp. 271-273]. Sullo sfondo politico e socio-economico dei due senatoconsulti [pp. 274-276]. Contenuto del s.c. Hosidianum (44-46 d.C.), che vietava di vendere e comprare edifici a fini speculativi [pp. 276-278]. Contenuto del senatusconsultum Volusianum (56 d.C.), che vietava esplicitamente anche al proprietario di un edificio la demolizione dello stesso a fini speculativi [pp. 279-281]. Sui successivi provvedimenti imperiali – di Vespasiano, Adriano, Marco Aurelio, Alessandro Severo, Diocleziano, Costantino – disciplinanti la stessa materia, e quindi in sostanza diretti a reprimere ed impedire ogni forma di speculazione edilizia [pp. 281-284]. [L. Cappelletti]

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L’A. propone una rassegna critica di tutte le fonti letterarie rilevanti per la definizione e la conoscenza dell’istituto del fundus fieri e del regime dei populi fundi facti. Sui passi ciceroniani nella pro Balbo e loro (ri)valutazione per la definizione dell’istituto. Il dato essenziale dell’istituto consiste nell’accettazione espressa da parte di popoli non romani di una lex populi Romani, accettazione che determina due applicazioni pratiche fondamentali: volontà di recepire una singola legge oppure volontà di voler fruire di un vantaggio (commodum/beneficium) offerto da una legge romana [pp. 2-7]. Sull’espressione populus fundus factus in Gell. NA 16.13.6, nell’ambito della definizione di municipes e municipium risalente molto probabilmente all’imperatore Adriano. Il valore tecnico-giuridico di fundus fieri rispetto ad una lex è confermato anche in Gell. NA 19.8.12, seppure in contesto metaforico [pp. 7-10]. L’espressione fundus esse in Plauto Trin. vv. 1122-1123, rinvia all’idea dell’accettazione, nello specifico di un impegno altrui [pp. 10-11]. L’esistenza di una locuzione tecnica populus fundus è confermata da Paolo-Festo, s.v. fundus, 79 L., ma nel suo complesso il testo è confuso e non è utilizzabile per la comprensione dell’istituto [pp. 12-13]. Argomentazioni dell’A. contro l’etimologia di fundus da *fendere = “legare” proposta da G. Beseler [pp. 14-17]. Ammessa la connessione con l’istituto del fundus fieri delle espressioni municipia fundana/municipes fundani nella Tavola di Heraclea (ll. 159ss.). Si tratterebbe di municipi che si fanno fundi, che accettano cioè, una qualsiasi legge (e quindi non solo quella de civitate) elaborata da Roma [pp. 18-24]. [L. Cappelletti]

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I primi due casi presi in esame sono quelli di Agrigentum e Heraclea, che all’A. appaiono per molti versi analoghi [p. 310]. Le leges de senatu cooptando furono verosimilmente date agli Agrigentini da L.Cornelio Scipione Asiageno, pretore di Sicilia nel 193 a.C., e prevedevano un assetto tale da preservare per gli Agrigentini una posizione di favore all’interno del senato rispetto ai nuovi coloni. In base a quanto si può desumere da Cicerone [p. 311], l’A. ipotizza che spettasse al pretore cooptare i nuovi senatori (sebbene nel caso specifico si abbia traccia di una pressione, commendatio, di Verre sul pretore). Il caso di Heraclea è analogo a quello di Agrigento, con la differenza che le norme de cooptando senatu risalivano alle lex Rupilia del cos. P.Rupilio, del 132 a.C. Un fatto importante, nella ricostruzione dell’A., è che sia Agrigentum che Heraclea fossero civitates decumanae [p. 311]. Differente sarebbe il caso di Halaesa, poiché per l’ammissione al senato locale non era prevista cooptatio [p. 312]. Halaesa era una delle cinque città sine foedere liberae et immunes della Sicilia e, in quanto tale, godeva senza dubbio di uno status particolare nonché di una notevole indipendenza. Nel 95 a.C., gli Halaesini chiesero, suo iure, al senato romano di dirimere la controversia de senatu cooptando. Il senato decise che fosse il pretore C.Claudius Pulcro a stabilire delle leggi in merito. Il contenuto di tali leges viene ricostruito dall’A. [pp. 312-313] sulla base della lex Iulia municipalis e delle accuse di broglio elettorale rivolte da Cicerone a Verre. Di particolare importanza è che la cooptatio dei nuovi senatori avvenisse a Halaesa grazie ad un suffragium popolare; in questo centro dunque, a differenza di Agrigentum e Heraclea, il termine cooptatio avrebbe assunto un significato non tecnico, dal momento che l’ammissione al senato veniva decisa su base popolare. Non è un caso, a detta dell’A., che la cooptatio fosse in vigore per civitates decumanae e il suffragium per una civitas libera [p. 313]. Si passa poi ad analizzare un altro aspetto del problema [p. 314], che emerge proprio in relazione alle difficoltà sorte nel completamento dei senati locali delle tre città: i rapporti tra veteres e coloni (novi). Secondo una prima lettura del par. 123 delle Verrine, si potrebbe affermare che la legge introdotta da L.Cornelio Scipione volesse in qualche modo privilegiare i veteres, impedendo ai novi di ottenere la maggioranza in senato. E tuttavia, analizzando in dettaglio la fonte, l’A. fa notare come tale interpretazione, accolta anche da Cicerone, sia in realtà particolarmente problematica, soprattutto volendo applicare questo sistema all’età di Verre [pp. 314-316]. Per l’A. sarebbe risultato difficile distinguere, a distanza di decenni, tra veteres e novi, e ciò anche ipotizzando che rientrasse tra i compiti dei censori locali proprio quello di stabilire tale condizione [p. 316]. L’A. si pone poi un’ulteriore domanda, se cioè tale rigida ripartizione tra vecchi e nuovi cittadini valesse anche in altri campi della vita civica di Agrigento, come ad es. nell’elezione alle magistrature locali [p. 317]. La compresenza nella stessa città di due distinti gruppi di cittadini, spesso con diritti e doveri differenti, non è documentata solo nelle città siciliane menzionate, e l’A. infatti estende l’analisi ad altri casi analoghi, come ad es. le colonie sillane [pp. 317-318]. Cicerone (Pro Sull. 21) testimonia per Pompei una situazione di disparità, nella gestione della città, tra coloni sillani e cittadini veteres. Tale disparità avrebbe portato anche a tensioni espresse al momento delle elezioni locali. L’analisi dell’A. offre dunque importanti considerazioni su diversi aspetti della vita pubblica locale delle città siciliane al tempo di Verre, contribuendo nel contempo ad una migliore comprensione di problematiche analoghe in comunità italiche (ad es. la richiesta avanzata dai Latini nel 340 a.C. di avere un console latino e metà senato composto da Latini: p. 319).

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