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ABACAENUM / TRIPI 

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Der A. beschäftigt sich mit der Munizipalisierung Siziliens unter Augustus, wobei er versucht, den nicht immer eindeutigen Bericht von Plinius dem Älteren damit in Einklang zu bringen. Für Diskussionen sorgen vor allem die oppida in dieser Aufzählung, deren munizipaler Status aus dem Bericht des Plinius oft nicht ablesbar ist. Wie der A. darstellt, war dies aber auch nicht die Intention der formula provinciae, die Plinius benutzte: Sie sollte die steuerpflichtigen Gemeinden zählen, weswegen etwa der Steuerstatus der Gemeinde (stipendaria, immunis, etc.) wichtiger war als der Bürgerrechtsstatus. Da Augustus auf das Getreide aus Sizilien für Rom angewiesen war, blieben die Gemeinden des fruchtbaren Innenlandes bis auf 3 Ausnahmen tributpflichtig, während die Städte an der Nordküste mit Veteranen besiedelt und autonom wurden. Erst als die Getreideversorgung durch Ägypten sichergestellt werden konnte, entließ Augustus, vermutlich beginnend mit seinem Besuch der Insel 23-22 v. Chr., weitere sizilische Gemeinden in die Autonomie – allerdings wird diese Phase der Munizipalisierung in Plinius Bericht nicht gänzlich abgebildet, da seine Quellen für Sizilien nur eine frühe Phase der Herrschaft des Augustus abbilden (vielleicht ist der Status von Halaesa etwa, das zwischen 2 v. und 14 n. Chr. ein municipium wurde, deswegen nicht erwähnt) [pp. 31-48]. Danach widmet sich der A. der Sonderstellung Siziliens unter den Provinzen. Zwischen Osten und Westen liegend, wurden weder das griechische Erbe, noch die Einflüsse der römischen Kultur und Lebensweise gänzlich angenommen. Als wichtiger Getreidelieferant, fernab jeder Grenze gelegen, wurde die Provinz weder von römischen Kaisern, Senatoren und Patronen reichlich gefördert, noch brachte es selbst, anders als die spanischen oder afrikanischen Provinzen, eine romanisierte Oberschicht hervor, die in Rom Karriere machte. [pp. 48-58]. [N. Rafetseder]

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Quale sia stata l’origine del προάγορος e quale la sua posizione all’interno delle città siceliote sono le due questioni trattate inizialmente dall’A., la quale si dichiara contraria alla teoria belochiana che asseriva per tale magistratura un’origine timoleontea, poiché se è vero che le città siceliote si ispirarono per il loro assetto istituzionale alle riforme apportate da Timoleonte a Siracusa nella seconda metà del IV sec. a.C., d’altra parte Siracusa non ha restituito attestazione alcuna della proagoria. Ma anche ipotizzandone l’esistenza, essa, in quanto magistratura suprema siracusana, sarebbe stata incompatibile con la strategia autocratica assunta da Timoleonte in quel periodo [pp. 155-160]. Secondo l’A. una possibile attestazione della proagoria si avrebbe a Tauromenio nei rendiconti finanziari cittadini di II-I sec. a.C. (IG XIV 423-430), che sono datati in base al rispettivo funzionario eponimo, il cui titolo abbreviato “πρ” potrebbe sciogliersi come προάγορος. All’incirca coeve sono le attestazioni ciceroniane della magistratura, il cui titolare è designato come summus magistratus di Catania e Tindari (e.g. Cic.Verr.2.4.39.85) [pp. 162-168]. Difendendo, con più argomenti, la veridicità storica della definizione ciceroniana della proagoria come somma magistratura cittadina [pp. 169-170], l’A. trova conferma di tale posizione e rispettive funzioni – soprattutto nella sfera amministrativa e religiosa e nei rapporti con il Senato romano – nel decreto di prossenia emanato da Agrigento nel I sec. a.C. in favore del Siracusano Demetrio di Diodoto (IG XIV 952) [pp. 171-176]. [E.A.Panciera]

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Partendo dall’analisi dei paragrafi 120-125 del secondo libro dell’actio secunda in Verrem, l’A. svolge alcune considerazioni relative all’accesso ai senati locali in tre città siciliane menzionate da Cicerone nei passi citati, Agrigentum, Halaesa e Heraclea. L’A. mette in risalto come Cicerone, pur specificando quali siano i fattori che possono impedire o favorire l’accesso al senato, non spieghi in realtà le relative modalità di ammissione ai senati locali [pp. 305-307]. In altre parole, non è chiaro se l’ammissione al senato avvenisse per cooptatio, lectio censoria o suffragium popolare. L’A. esclude che l’accesso avvenisse per lectio censoria, poiché il censimento, in Sicilia, avrebbe avuto uno scopo esclusivamente fiscale [p. 306]. La cooptatio e il suffragium sono testimoniati da Cicerone nei passi analizzati; l’A. vuole dimostrare che l’applicazione di questi due diversi metodi di ammissione al senato doveva dipendere dalla forma giuridica delle città in questione [p. 308]. I primi due casi presi in esame sono quelli di Agrigentum e Heraclea, che all’A. appaiono per molti versi analoghi [p. 310]. Le leges de senatu cooptando furono verosimilmente date agli Agrigentini da L. Cornelio Scipione Asiageno, pretore di Sicilia nel 193 a.C., e prevedevano un assetto tale da preservare per gli Agrigentini una posizione di favore all’interno del senato rispetto ai nuovi coloni. In base a quanto si può desumere da Cicerone [p. 311], l’A. ipotizza che spettasse al pretore cooptare i nuovi senatori (sebbene nel caso specifico si abbia traccia di una pressione, commendatio, di Verre sul pretore). Il caso di Heraclea è analogo a quello di Agrigento, con la differenza che le norme de cooptando senatu risalivano alle lex Rupilia del cos. P. Rupilio, del 132 a.C. Un fatto importante, nella ricostruzione dell’A., è che sia Agrigentum che Heraclea fossero civitates decumanae [p. 311]. Differente sarebbe il caso di Halaesa, poiché per l’ammissione al senato locale non era prevista cooptatio [p. 312]. Halaesa era una delle cinque città sine foedere liberae et immunes della Sicilia e, in quanto tale, godeva senza dubbio di uno status particolare nonché di una notevole indipendenza. Nel 95 a.C., gli Halaesini chiesero, suo iure, al senato romano di dirimere la controversia de senatu cooptando. Il senato decise che fosse il pretore C. Claudius Pulcro a stabilire delle leggi in merito. Il contenuto di tali leges viene ricostruito dall’A. [pp. 312-313] sulla base della lex Iulia municipalis e delle accuse di broglio elettorale rivolte da Cicerone a Verre. Di particolare importanza è che la cooptatio dei nuovi senatori avvenisse a Halaesa grazie ad un suffragium popolare; in questo centro dunque, a differenza di Agrigentum e Heraclea, il termine cooptatio avrebbe assunto un significato non tecnico, dal momento che l’ammissione al senato veniva decisa su base popolare. Non è un caso, a detta dell’A., che la cooptatio fosse in vigore per civitates decumanae e il suffragium per una civitas libera [p. 313]. Si passa poi ad analizzare un altro aspetto del problema [p. 314], che emerge proprio in relazione alle difficoltà sorte nel completamento dei senati locali delle tre città: i rapporti tra veteres e coloni (novi). Secondo una prima lettura del par. 123 delle Verrine, si potrebbe affermare che la legge introdotta da L. Cornelio Scipione volesse in qualche modo privilegiare i veteres, impedendo ai novi di ottenere la maggioranza in senato. E tuttavia, analizzando in dettaglio la fonte, l’A. fa notare come tale interpretazione, accolta anche da Cicerone, sia in realtà particolarmente problematica, soprattutto volendo applicare questo sistema all’età di Verre [pp. 314-316]. Per l’A. sarebbe risultato difficile distinguere, a distanza di decenni, tra veteres e novi, e ciò anche ipotizzando che rientrasse tra i compiti dei censori locali proprio quello di stabilire tale condizione [p. 316]. L’A. si pone poi un’ulteriore domanda, se cioè tale rigida ripartizione tra vecchi e nuovi cittadini valesse anche in altri campi della vita civica di Agrigento, come ad es. nell’elezione alle magistrature locali [p. 317]. La compresenza nella stessa città di due distinti gruppi di cittadini, spesso con diritti e doveri differenti, non è documentata solo nelle città siciliane menzionate, e l’A. infatti estende l’analisi ad altri casi analoghi, come ad es. le colonie sillane [pp. 317-318]. Cicerone (Pro Sull. 21) testimonia per Pompei una situazione di disparità, nella gestione della città, tra coloni sillani e cittadini veteres. Tale disparità avrebbe portato anche a tensioni espresse al momento delle elezioni locali. L’analisi dell’A. offre dunque importanti considerazioni su diversi aspetti della vita pubblica locale delle città siciliane al tempo di Verre, contribuendo nel contempo ad una migliore comprensione di problematiche analoghe in comunità italiche (ad es. la richiesta avanzata dai Latini nel 340 a.C. di avere un console latino e metà senato composto da Latini: p. 319). [F. Russo]

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L’A. riesamina l’ipotesi normalmente accettata secondo cui il tribunato della plebe sarebbe stato introdotto nelle comunità italiche su imitazione delle colonie latine, le quali, a loro volta, lo avrebbero ereditato da Roma. Partendo dalla constatazione che il tribunato della plebe non è attestato nelle colonie latine, a differenza della questura, e che il termine plebs giuridicamente non si adatta al contesto delle comunità italiche, l’A. affronta la questione sulla base di una serie di iscrizioni in osco in cui si menzionano uno o più tribuni della plebe [p. 45]. Fermo restando che l’osco plífríks corrisponde all’equivalente latino *plebiscus, l’A. mostra come il termine tríbuf / tribúf, che ricorre variamente declinato nelle iscrizioni prese in analisi, non vada ricollegato al latino tribunus da tribus, poiché in tal caso la forma trif– sarebbe stata attesa, ma alla parola italica *trēb-, dal significato di “costruttore” [pp. 45-46]. L’A. collega quindi questa magistratura all’edilità romana e nega, nel contempo, che essa fosse collegata al tribunato della plebe romano [p. 46]. L’aggettivo plífríks sarebbe stato aggiunto per distinguere questa magistratura dal tribunato militare, che gli Italici dovevano ben conoscere, dato che servivano nell’esercito romano [p. 47]. Il caso in questione rientrerebbe sì perfettamente nel quadro della diffusione di magistrature romane in ambito italico (in ogni caso l’edilità e non il tribunato della plebe), ma dimostrerebbe anche e una volta in più la libertà con cui esse erano adattate in ambito italico [p. 48]. [F. Russo]

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Starting from a new analysis of an excerpt of Modestinus (Dig. 50.4.11) and of some passages of the Lex Malacitana, the A. proposes a new interpretation of the problem of the cursus honorum in Roman municipia. A fragment from the Lex Malacitana, which amply describes the election of local magistrates, does not mention the necessity for the candidates to the duovirate iure dicundo of having been already appointed the quaestorship or the aedilship [p. 63-64]. In contrast to modern scholarly hypothesis that a complete cursus honorum was described in some lost parts of the Lex Malacitana, the A. stresses the fact that the Lex Malacitana itself prescribes a minimum of age of 25 years to be appointed either as an aedilis or as a quaestor [p. 65-66], which means that both appointments were accessible regardless of the age of the candidate. This would prove, according to the A., that the Lex Malacitana did not prescribe any rule concerning the succession of appointments in the local cursus honorum. Epigraphic evidence from Venosa further confirms the A.’s hypothesis. The analysis of the names of local magistrates in the period 35 BC – 28 BC has revealed that all those who reached the highest municipal magistracy had not been previously appointed as aediles [pp. 65-67]. Even in consideration of the fragmentary conditions of the studied evidence, the A. considers this fact to be consistent with the absence of rules concerning the cursus honorum in the Lex Malacitana. Further data come from the analysis of a corpus of 586 funerary inscriptions [p. 67] from various parts of Italy. While most inscriptions up to the age of Antoninus Pius only mention the highest magistracy [p. 68], the inscriptions dating back to Antoninus Pius’ principate or immediately afterwards mention complete examples of cursus honorum. The A. connects the shift in the studied epigraphic evidence to the above-mentioned passage from Modestinus [p. 69]: according to Modestinus, Antoninus Pius prescribed a specific order in the municipal cursus honorum. Such a prescription was later confirmed by Marcus Aurelius [p. 69]. Regardless of the causes of Antoninus Pius’ intervention (the A. thinks to a provision possibly concerning a specific municipium), in Septimius Severus’ days this was established as a regular law as a passage from the De muneribus et honoribus of Callistratus shows [p. 70]. In this respect, the A. also emphasizes [p. 70-71] that the canonical Republican cursus honorum was not regulated by the Lex Villia Annalis (180 BC), which only prescribed the minimum age to access each magistracy (Liv. 40.44.1). It was only with Sulla that the succession of the various magistracies in the cursus honorum was clearly defined [p. 71]. According to the A., the absence of specific rules concerning the cursus honorum, apart from the age required of the candidates, would have been also reflected in the municipia, as the Lex Malacitana suggests [p. 72]. Only gradually did Roman municipia abide by the rules that Sulla introduced for the city of Rome [p. 73]; in any case, up to Antoninus Pius’ prescriptions, to abide by such rules was not mandatory. The presence of detailed rules concerning the local cursus honorum and access to magistracies in the Tabula Bantina is viewed by the A. as consequence of the Social war, in contrast to a part of the modern scholarship that attributes it to the pre-Roman status of the city [p. 72-73]. [F. Russo]

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Scopo dell’articolo è l’analisi della documentazione epigrafica da Ostia, Cumae, Fundi e Formiae relativa alla figura dell’interrex ed all’istituto dell’interregnum. L’A. parte dall’ipotesi del Mommsen (Römisches Staatsrecht, Leipzig 1887, vol. 3, 570-823), universalmente accettata negli studi moderni, secondo cui l’interrex fu introdotto nei centri locali per volontà di Roma, mettendone in risalto però la debolezza, poiché Mommsen stesso non spiegava in che modo Roma avesse contribuito alla sua diffusione [p. 58]. L’A. denuncia poi lo scarso interesse degli studiosi moderni per questa carica: a differenza di altre magistrature attestate in area italica, di origine italica o romana, che sono state a più riprese e ormai da anni oggetto di numerosi studi, l’interrex non ha mai ricevuto l’attenzione che pure merita, essendo rimasto nell’ombra della spiegazione mommseniana [p. 59]. Criticando l’approccio moderno, che analizza le attestazioni di interreges indipendentemente dalla forma giuridica delle città di provenienza, l’A. ritiene che la differenza tra colonie di diritto latino, colonie di diritto romano e municipi – appunto le tre categorie in cui rientrano le comunità dove è presente un interrex o un interregnum – sia un elemento di fondamentale importanza nella comprensione dell’origine e della funzione dell’interrex [pp. 59-60]. Mentre nel caso di colonie, anche quelle di diritto latino, si dovrà tenere presente una più stretta aderenza, anche dal punto di vista delle istituzioni, al modello romano, per i municipi anteriori alla Guerra Sociale si dovrà presupporre un maggior grado di indipendenza: nel primo caso sarà forse più probabile che l’introduzione dell’interrex vada attribuita ad un’azione del governo centrale; nel secondo caso, si tratterà più verosimilmente di un’adozione spontanea del modello romano. La prima iscrizione analizzata proviene da Benevento (CIL 12, 1729), dove è menzionato un C. Oppio Capitone, interrex, oltre che quaestor, praetor e censor. L’A. attribuisce l’iscrizione, sulla base del cursus honorum, al periodo in cui Benevento era ancora colonia di diritto latino, prima cioè del processo di municipalizzazione successivo alla guerra sociale, e ipotizza l’esistenza di precise analogie tra le istituzioni beneventane e quelle di altre colonie latine, quali Ariminum e Venusia [pp. 62-63]. La seconda attestazione proviene da Ostia, è del 49 a.C. e vi ricorre il termine interregnum (CIL 14, 4531). Il fatto che qui sia menzionato un Cn. Pompeius, generalmente identificato con Pompeo Magno, ha indotto alcuni studiosi a riferire l’interregnum non ad Ostia, ma a Roma. L’A., tuttavia, muove argomenti contrari a tale lettura, tra cui il fatto che l’ultimo interrex attestato per Roma risalga al 52 a.C. [pp. 64-65]. Allo studio unitario delle due attestazioni di interrex da Fondi e Formia, degli inizi del I sec. d.C. è allegata una breve storia istituzionale delle due città dalla conquista romana all’età imperiale [pp. 66-68], con particolare riguardo al loro peculiare assetto magistratuale, la cd. “costituzione dei tre edili’”; secondo l’A. qui l’interrex sarebbe una magistratura non romana, ma epicoria, sopravvissuta alla fondazione municipale e con funzione equivalente al rex sacrorum [p. 69]. Per cui gli interreges di questi due municipi di antica fondazione avevano una funzione religiosa, diversamente da quelli delle colonie di Benevento e Ostia, dove avrebbero svolto il loro ruolo in caso di vacanza magistratuale [p. 70]. L’ultimo caso di interrex in ambito italico è dato da un’iscrizione molto frammentaria di Cuma del I sec. d.C. (EDR 105898); dall’analisi della storia istituzionale del centro emerge la persistenza delle magistrature locali anche durante le fasi di integrazione nella civitas romana e tra esse, secondo l’A., andrebbe incluso anche l’interrex risalente al periodo greco della città (sulla base di Plut. Mor. 291 F-292) [pp. 71-76]. Si conclude affermando che l’istituto dell’interrex fu senza dubbio introdotto da Roma nelle colonie; in altri casi, essenzialmente municipali, l’interrex sarebbe stata invece una magistratura epicoria, con funzioni diverse nei diversi luoghi di attestazione [p. 77]. [F. Russo]

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L’A. si concentra sull’esiguo patrimonio epigrafico proveniente dai centri di Crotone e Caulonia, facendo particolare riferimento a due testi. La prima iscrizione (SEG 51, 2001, 1407) di carattere sacro, datata al VI sec. a.C., è incisa su un cippo trovato all’interno dell’area sacra del tempio dell’antica Caulonia. L’alfabeto usato è quello corinzio e non acheo, come ci si aspetterebbe [p. 274]. Il cattivo stato di conservazione del testo compromette ogni interpretazione. L’A. propone di leggervi ΑΜΒΑ, forme sincopata di ΑΝΑΒΑ, e non Ἀνεμιᾶν. La seconda iscrizione in alfabeto acheo su tabella bronzea è attribuita a Caulonia (SEG 4, 1929, 71), anche se non si conosce il luogo esatto di ritrovamento. Si tratta di un atto di donazione con la menzione del demiurgo al genitivo. Il confronto con un’altra iscrizione frammentaria (M.L.LAZZARINI, L’eponimia a Crotone. A proposito di una nuova laminetta bronzea iscritta, in: Epigraphica. Atti delle Giornate di Studio di Roma e di Atene in memoria di M. Guarducci (1902-1999), Opuscula Epigraphica 10, Roma 2003, 81-90) su tabella bronzea, databile tra la fine del IV e l’inizio del III sec. a.C., rinvenuta nell’area del santuario di Hera Lacinia presso Crotone, chiarisce la funzione del demiurgo come magistrato eponimo [p. 274]. Stesse considerazioni sono valide anche per un’iscrizione frammentaria (M.L.LAZZARINI, Una nuova lamina bronzea iscritta dal territorio lametino, ArchClass 56, 2005, 453-460) proveniente da Terina, nell’area di influenza crotoniate [p. 275]. Altri elementi interessanti nella seconda iscrizione cauloniate sono le sigle che precedono i nomi del demiurgo e dei garanti a indicare l’esistenza di suddivisioni civiche, proprie di Crotone e della madrepatria achea. [J. Piccinini]

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L’A. si concentra sull’esiguo patrimonio epigrafico proveniente dai centri di Crotone e Caulonia, facendo particolare riferimento a due testi. La prima iscrizione (SEG 51, 2001, 1407) di carattere sacro, datata al VI sec. a.C., è incisa su un cippo trovato all’interno dell’area sacra del tempio dell’antica Caulonia. L’alfabeto usato è quello corinzio e non acheo, come ci si aspetterebbe [p. 274]. Il cattivo stato di conservazione del testo compromette ogni interpretazione. L’A. propone di leggervi ΑΜΒΑ, forme sincopata di ΑΝΑΒΑ, e non Ἀνεμιᾶν. La seconda iscrizione in alfabeto acheo su tabella bronzea è attribuita a Caulonia (SEG 4, 1929, 71), anche se non si conosce il luogo esatto di ritrovamento. Si tratta di un atto di donazione con la menzione del demiurgo al genitivo. Il confronto con un’altra iscrizione frammentaria (M.L.LAZZARINI, L’eponimia a Crotone. A proposito di una nuova laminetta bronzea iscritta, in: Epigraphica. Atti delle Giornate di Studio di Roma e di Atene in memoria di M. Guarducci (1902-1999), Opuscula Epigraphica 10, Roma 2003, 81-90) su tabella bronzea, databile tra la fine del IV e l’inizio del III sec. a.C., rinvenuta nell’area del santuario di Hera Lacinia presso Crotone, chiarisce la funzione del demiurgo come magistrato eponimo [p. 274]. Stesse considerazioni sono valide anche per un’iscrizione frammentaria (M.L.LAZZARINI, Una nuova lamina bronzea iscritta dal territorio lametino, ArchClass 56, 2005, 453-460) proveniente da Terina, nell’area di influenza crotoniate [p. 275]. Altri elementi interessanti nella seconda iscrizione cauloniate sono le sigle che precedono i nomi del demiurgo e dei garanti a indicare l’esistenza di suddivisioni civiche, proprie di Crotone e della madrepatria achea. [J. Piccinini]

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Testo molto frammentario di fine IV-inizi III sec.a.C. iscritto su lamina bronzea rinvenuta nella primavera del 2000 presso il santuario crotoniate di Hera Lacinia a Capo Colonna. Alla l. 1 demiurgo eponimo – ἐπὶ δαμιορ[γοῦ – la cui menzione serve a datare l’operazione finanziaria (prestito o deposito di stateri d’argento) condotta da magistrati pubblici – οἱ πρόδ[ικοι] – menzionati alla l. 2. [L. Cappelletti]

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This paper represents a survey of all the epigraphic and literary evidence concerning political institutions in Western Achaean poleis, starting from the attestations of the damiourgoi in literary (Polyb. II, 39, 6) and epigraphic sources (SEG 4, 1929, no. 71 and no. 75, IG XIV, 636, SEG 4, 1929, no. 73) and of the archon in Croton (Athen. 12, 522 a-c) – maybe also called exarchos (Iambl. VP 74). Space is also given to other evidence testifying to assemblies in Croton, as the archeion of the gherontes mentioned in Dicearch. fr. 33 Wehrli, the ekklesia in Diod. 12, 9, 3-4, the senatus, mentioned by Val. Max. 8, 15, and the assembly of the chilioi (Iambl. VP 45 and 126). Apart from Croton [pp. 134-137] institutions in other Achaean poleis are not well documented: in Sybaris [p. 137] archontes are attested (Phil. FGrHist 81 F 45) as well as the tyrant/basileus Telys (Hdt. 5, 44, 1); at Metapontum magistrates were maybe called akoasteres, according to a lemma in Hesychios (Hesych., s.v. akoasteres). [J.Piccinini]

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L’A. prende in esame i problemi di restituzione testuale, storici e cronologici della dedica degli Ipponiati a Olimpia che, incisa su uno scudo bronzeo di tipo beotico, celebra la vittoria da questi riportata sui Crotoniati assieme ai Medmei e ai Locresi (SEG XI, 1950, nr. 1211). L’integrazione del testo, che presenta interessanti impronte osche, e i caratteri epigrafici dello stesso consentono di datare l’iscrizione ad un momento successivo alla battaglia di Imera (480 a.C.), quando Locri e le sue sub-colonie risultano alleate dei Dinomenidi, allora impegnati in un tentativo di espansione verso il Tirreno meridionale e centrale, trovando un naturale antagonista proprio in Crotone, oltre che nelle comunità etrusche meridionali. L’A. propone come datazione più attendibile della dedica il 475 a.C. (se non già l’anno precedente), nel contesto degli attacchi locresi (condotti a partire dalle colonie tirreniche, Ipponio in primis) contro gli avamposti tirrenici di Crotone, e degli intensi rapporti che l’ambito locrese intratteneva allora con Olimpia, sottolineati dalle vittorie di Eutimo nei giochi olimpici. [J. Piccinini]

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Scopo dell’articolo è l’analisi della documentazione epigrafica da Ostia, Cumae, Fundi e Formiae relativa alla figura dell’interrex ed all’istituto dell’interregnum. L’A. parte dall’ipotesi del Mommsen (Römisches Staatsrecht, Leipzig 1887, vol. 3, 570-823), universalmente accettata negli studi moderni, secondo cui l’interrex fu introdotto nei centri locali per volontà di Roma, mettendone in risalto però la debolezza, poiché Mommsen stesso non spiegava in che modi Roma avesse contribuito alla sua diffusione [p. 58]. L’A. denuncia poi lo scarso interesse degli studiosi moderni per questa carica: a differenza di altre magistrature attestate in area italica, di origine italica o romana, che sono state a più riprese e ormai da anni oggetto di numerosi studi, l’interrex non ha mai ricevuto l’attenzione che pure merita, essendo rimasto nell’ombra della spiegazione mommseniana [p. 59]. Criticando l’approccio moderno, che analizza le attestazioni di interreges indipendentemente dalla forma giuridica delle città di provenienza, l’A. ritiene che la differenza tra colonie di diritto latino, colonie di diritto romano e municipi – appunto le tre categorie in cui rientrano le comunità dove è presente un interrex o un interregnum – sia un elemento di fondamentale importanza nella comprensione dell’origine e della funzione dell’interrex [pp. 59-60]. Mentre nel caso di colonie, anche quelle di diritto latino, si dovrà tenere presente una più stretta aderenza, anche dal punto di vista delle istituzioni, al modello romano, per i municipi anteriori alla Guerra Sociale si dovrà presupporre un maggior grado di indipendenza: nel primo caso sarà forse più probabile che l’introduzione dell’interrex vada attribuita ad un’azione del governo centrale; nel secondo caso, si tratterà più verosimilmente di un’adozione spontanea del modello romano. La prima iscrizione analizzata proviene da Benevento (CIL 12, 1729), dove è menzionato un C. Oppio Capitone, interrex, oltre che quaestor, praetor e censor. L’A. attribuisce l’iscrizione, sulla base del cursus honorum, al periodo in cui Benevento era ancora colonia di diritto latino, prima cioè del processo di municipalizzazione successivo alla guerra sociale, e ipotizza l’esistenza di precise analogie tra le istituzioni beneventane e quelle di altre colonie latine, quali Ariminum e Venusia [pp. 62-63]. La seconda attestazione proviene da Ostia, è del 49 a.C. e vi ricorre il termine interregnum (CIL 14, 4531). Il fatto che qui sia menzionato un Cn. Pompeius, generalmente identificato con Pompeo Magno, ha indotto alcuni studiosi a riferire l’interregnum non ad Ostia, ma a Roma. L’A., tuttavia, muove argomenti contrari a tale lettura, tra cui il fatto che l’ultimo interrex attestato per Roma risalga al 52 a.C. [pp. 64-65]. Allo studio unitario delle due attestazioni di interrex da Fondi e Formia, degli inizi del I sec. d.C. è allegata una breve storia istituzionale delle due città dalla conquista romana all’età imperiale [pp. 66-68], con particolare riguardo al loro peculiare assetto magistratuale, la cd. “costituzione dei tre edili’”; secondo l’A. qui l’interrex sarebbe una magistratura non romana, ma epicoria, sopravvissuta alla fondazione municipale e con funzione equivalente al rex sacrorum [p. 69]. Per cui gli interreges di questi due municipi di antica fondazione avevano una funzione religiosa, diversamente da quelli delle colonie di Benevento e Ostia, dove avrebbero svolto il loro ruolo in caso di vacanza magistratuale [p. 70]. L’ultimo caso di interrex in ambito italico è dato da un’iscrizione molto frammentaria di Cuma del I sec. d.C. (EDR 105898); dall’analisi della storia istituzionale del centro emerge la persistenza delle magistrature locali anche durante le fasi di integrazione nella civitas romana e tra esse, secondo l’A., andrebbe incluso anche l’interrex risalente al periodo greco della città (sulla base di Plut. Mor. 291 F-292) [pp. 71-76]. Si conclude affermando che l’istituto dell’interrex fu senza dubbio introdotto da Roma nelle colonie; in altri casi, essenzialmente municipali, l’interrex sarebbe stata invece una magistratura epicoria, con funzioni diverse nei diversi luoghi di attestazione [p. 77]. [F. Russo]

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